domenica 27 settembre 2015

Godspeed you! Black Emperor @ Danforth Music Hall - Toronto

26 settembre 2015

Ormai si e' capito come la citta' (anzi, la Citta') abbia da offrire occasioni cui la provincia non puo' certo aspirare: il gigante fuori tempo massimo passa per la provincia, gli artisti moderni no. E io, per quanto mi possa intenerire nel vedere lo zappatore coatto che e' stato il mio mito quando avevo nove anni, sono innegabilmente un animale intellettualoide da citta', anzi da Citta': del resto la verita' e' che provengo dalla prima Citta' (in senso "occidental-moderno") della storia.

Il biglietto per i Quebecchesi l'ho comprato a meta' luglio, non appena ho saputo che sarebbero passati da queste parti, senza pensarci un secondo; non conosco nessuno potenzialmente interessabile a un evento simile, ovvero conosco piu' di qualcuno che verrebbe volentieri, ma sono tutti dal lato sbagliato dell'Atlantico, percio' vado da sola.

Se in alcune (molte?, la maggior parte?) occasioni e' bene essere in pista per godere lo spettacolo al meglio, questa volta le poltroncine di velluto non erano una scelta economica ma anzi, mi parevano decisamente piu' adeguate, percio' avevo comprato un posto a sedere in alto: col senno di poi devo dire che la scelta si e' rivelata assolutamente corretta.

Arrivo dunque, sono in alto, in ultima fila, abbastanza centrale: alla mia destra il corridoio, alla mia sinistra una coppia che andra' via prima della fine (!!!), davanti a me nessuno e posso stendere le gambe sul bracciolo destro della poltroncina davanti per godere comodamente la Musica.

Il gruppo spalla, gli Xylouris White non si fa attendere a lungo; sono un duo decisamente interessante, batteria e liuto, parzialmente strumentali anche se di tanto in tanto il liutista canta in una lingua a me completamente ignota, dal suono mediterraneo (scopriro' poi che e' greco). Gradevolissimi, intensi, avvolgenti: si', hanno catturato la mia attenzione e sono pronta a seguire la mia tradizione personale e comprare il loro CD all'uscita. Sulle ultime due tracce si avvalgono anche di un contrabbassista che da un gran corpo ai suoni, eppure devo dire che i brani a due mi avevano colpita di piu'. Vabbeh.
Non sono l'unica ad averli apprezzati: escono tra gli applausi del colto pubblico cittadino. A fine concerto, uscendo, mi fermero' al banco per comprare il suddetto CD, ma purtroppo (anzi, per loro fortuna) li hanno gia' venduti tutti: ci resto male ma stringo loro la mano complimentandomi e mi faccio dare un biglietto da visita, riducendomi poi ad ordinare l'album via amazon questa mattina.
Ne riparleremo.

Salgono i tecnici sul palco e in molti intorno a me si alzano per un'altra birra; il rapporto con l'alcol di questa gente mi lascia sempre un filo di nostalgia di casa: fino a diciannove anni non possono toccarlo, e' illegale, dunque dopo ne abusano...
Il palco e' allestito in un modo che non avevo mai visto prima, gli amplificatori sono disposti a semicerchio e le due sedie piu' vicine al pubblico sono addirittura voltate in modo che la persona che si siedera' sara' costretta a rivolgerci le spalle: sembra una specie di caldo cerchio accogliente di amici che hanno voglia di parlare fra loro mentre noi assisteremo stupefatti al loro dialogo.
Tutti dicono che Montreal e' la citta' piu' "europea" del nordamerica ma quando sono stata li' due anni fa non avevo avuto questa impressione: oggi, davanti a questo palco cosi' allestito, mi rendo conto che forse quel che intendono e' qualcosa di culturale che esprimono malamente col termine "europeo", ma bisogna viverci per sentirlo e coglierlo.

Mentre i tecnici sono ancora sul palco la musica di sottofondo si scioglie in un rumore elettronico cupo e persistente, come quello di quando si lascia un basso distorto appoggiato all'amplificatore, e continua anche dopo che i tecnici sono usciti e la sala s'e' fatta buia: con questo sottofondo entra in scena Sophie Trudeau camminando lentissimamente, subito seguita altrettanto lentamente da Thierry Amar che prende il contrabbasso.
Attaccano a sfregare delicatamente i rispettivi strumenti, i suoni infinitamente lunghi di "Hope Drone" cominciano a prendere corpo, avvolti ancora da quel rumore elettronico che non sembra aver intenzione di scomparire; sullo schermo alle loro spalle cominciano a proiettarsi forme grigie come un vecchissimo video in fase di sincronizzazione. I secondi diventano minuti mentre il resto della band prende posto nel semicerchio: Moya, Menuk, Pezzente, Amar, Trudeau e Bryant (gia' in ginocchio sui pedali), con Herzog e Girt in linea con gli amplificatori.
Non lo avevo mai sentito se non via youtube, sapevo pero' che ci aprono spesso i concerti e oggi ne capisco il motivo: la suite non esplode mai veramente, resta li' sul punto di farlo, eppure a suo modo riesce a far tremare tutto, mentre sugli schermi compare a tratti la scritta "Hope", distorta anch'essa dal rumore.

Segue "Gathering Storm" e le immagini sul fondo cominciano a prendere corpo: e' natura grigia, sferzata dal vento e dai suoni dei Quebecchesi. Mi torna in mente quella volta in cui i Marlene Kuntz avevano improvvisato sui video di Painlevé, ma qui non c'e' improvvisazione, questo e' stato pensato per essere cosi' fin dall'inizio, le immagini sono simili a quelle che si vedono nei video dei loro concerti sul tubo, con la differenza che a esserci e' tutta un'altra cosa.

Poi suonano tutto di fila "Asunder, Sweet and Other Distress", album cui sono particolarmente legata anche se qui non avevo avuto voglia di scriverne.
Spiego.
L'ho ricevuto in anticipo sul resto del mondo (vivere in Canada avra' pur qualche vantaggio, no?) e l'ho ascoltato per la prima volta in bici in riva al lago, solo che non era fine-maggio come con Sufjan Stevens, ma fine-marzo, forse inizio aprile: il disgelo era cominciato nel senso che le strade non erano fisicamente ghiacciate e si poteva prendere in considerazione l'idea di muoversi in bici, ma c'era ancora neve ovunque, ancora nevicava abbastanza spesso, il lago era ancora quasi completamente ghiacciato.
Era un sabato stanco in una fase di silenzio e freddo, l'album era arrivato il giorno prima, avevo cominciato a tirar calci da forse due settimane ed era ancora presto perche' fosse realmente appagante e il grigio mi opprimeva, sicche' avevo inforcato la bici ed ero andata al lago col mio fedele cuffione; faceva un freddo porco, indossavo due paia di pantaloni, due maglioni sotto la giacca, sciarpone e cappello di lana nonche' due paia di guanti, pedalavo con tutta la forza che avevo in corpo e nonostante gli strati mi si ghiacciavano le dita di mani e piedi. E li', guardando il lago, gli animali che vi camminavano sopra dando la sensazione che se io avessi voluto saltare su quello strato di ghiaccio non si sarebbe comunque rotto, immersa in quel grigio assoluto, avvolta completamente dalla musica dei GY!BE, ho capito.
Ho capito da dove viene la loro musica (dicono che a Monteral faccia piu' freddo e piu' a lungo), ho capito cosa davvero li differenzia dai Texani, ho capito che certi suoni parlano delle nervature del ghiaccio (gia', anche lui lo aveva gia' detto: fate caso alle armoniche che si sentono esattamente in quella strofa...), del cielo plumbeo carico di neve, del vento gelido e pesante del nord.
Ma soprattutto ho capito che non potevo lasciarmi abbattere, che ero piu' forte del cupo inverno canadese, e in un qualche modo ha fatto parte del processo di rinascita dopo l'inverno.
Sentire quest'album suonato dal vivo, cosi', in tutta la sua potenza, con quelle immagini di grigio-inverno che scorrono sullo sfondo mi ha colpita profondamente, facendomi venire brividi e pelle d'oca: la "parola con la w" (a settembre qui si dice cosi') non si puo' pronunciare, ma e' alle porte e so che questo pensiero ha attraversato la testa di tutti i presenti.

Poi e' la volta di "Moya" e il pubblico scalpita gia' ai primi suoni, qualcuno dal basso grida "thank you" e io mi associo mentalmente: che suite incredibile, quanta dolcezza, quanta meraviglia!
Segue un brano che non conosco, forse uno nuovo, che spero' pero' di poter riascoltare presto.

Chiudono con "The sad mafioso" e anche qui il pubblico si fa sentire subito con calorosi applausi: l'ascolto di un album dei GY!BE e' mentalmente impegnativo ma il bombardamento sonoro, oserei dire 'fisico', che si riceve ad essere li' lo e' ancora di piu' e l'energia emanata e' incredibile.
Capisco che non ci sara' un encore: come potrebbe del resto?, suonano da piu' di due ore, saranno distrutti, oltre al fatto che fare un encore di venti minuti avrebbe del ridicolo.
Infatti sulla lunghissima coda di "The sad mafioso" uno ad uno escono dal palco, lasciando gli amplificatori a vibrare di feedback infinito. Poi, all'improvviso, il silenzio.
Luci.

La 403 mi parla in silenzio lungo il viaggio di ritorno.

martedì 22 settembre 2015

Slash @ Hamilton Place Theater - Hamilton

21 settembre 2015

Correva l'anno 1990 e avevo da poco compiuto sette anni quando il figlio di amici di famiglia mi sottopose al primo ascolto di "G N' R Lies": la mia "carriera" da pessima musicista dilettante e attenta ascoltatrice di album comincio' quel giorno e i Guns N' Roses furono il mio primo amore musicale, parallelamente a Edoardo Bennato. Ebbene si', in versione ancora acerba (nel caso fosse sfuggito il dettaglio lo ripeto: avevo sette anni!) la mia anima rock e la mia vena cantautorale gia' cominciavano a farsi vedere.

Passarono per Roma nel '92 ma a quell'eta' non si poteva andare a un concerto dei Guns N' Roses: mi e' sempre rimasta una punta di amarezza nonostante mi sia sempre resa conto della ragionevolezza dell'imposizione parentale.

Nel '93, con lo scatto della decina e l'uscita di "In Utero", mi stavo gia' spostatando nella direzione musicale che chi mi legge con attenzione (dai, ci saranno almeno due persone che leggono questi miei scritti?, facciamo tre?) conosce bene, e l'uscita di "The Spagetti Incident?" mi lascio' quasi del tutto indifferente... e d'altra parte esiste forse qualcuno in giro che lo tiene in gran conto?
Per finire la lite tra Axl e Slash con conseguente fine di cio' che ai miei occhi erano in Guns n' Roses fu la pietra tombale del mio primo amore.
Da allora non ho praticamente avuto la piu' pallida idea di cosa fosse stato di tutti loro.

Finche' un bel giorno vengo a sapere che Saul Hudson suonera' a cinque minuti a piedi da casa mia. Si', proprio lui, Slash lo zappatore, il motivo per cui ho iniziato a suonare la chitarra, passa per Hamilton Ontario con la sua band.
Lo so, sono decisamente fuori tempo massimo e stasera a Toronto c'e' Sun Kil Moon che per altro ha scritto un album che per ora mi sta abbastanza conquistando, ma Sun Kil Moon mi capitera' di nuovo, e se non ricapita lo faccio ricapitare io: Slash questa volta non posso perderlo.

Sono con un amico che di musica non conosce poi molto, ma almeno e' curioso. Gli racconto la storia, gli spiego perche' e' importante per me esserci e lui dice una cosa che mi colpisce: "if you really want something badly enough... well, you make it happening".
E certo non e' il concerto che sognavo da bambina, e certo sono fuori tempo massimo, ma e' vero: mi ci sono voluti piu' di vent'anni ma alla fine lo sto facendo accadere.

All'ingresso ci attendono i ragazzi della sicurezza dotati di metal detector: non resisto, li devo fotografare.
Appena dentro l'immancabile bar con birra, dolciumi vari e northamericanpizza: quella "cheese" (che vuole ricordare una margherita) e' ancora li' mentre quella "pepperoni" (che poi sarebbe salame piccante) e' andata.
O tempora, O mores.

I nostri posti sono in seconda balconata e saliamo molto piu' di quanto mi aspettassi ma niente poteva prepararmi allo spettacolo che mi sono trovata davanti; e' buio, buissimo, il palco e' illuminato e il gruppo spalla sta suonando. Sin qui niente di eccezionale, direte voi (ma voi chi?) solo che la balconata e' davvero ripida e non sono sicura di voler scendere quei gradini bui: non soffro di vertigini, ma provo uno strano fastidio all'idea di doverlo fare.
Ovviamente li scendo, del resto ne bastano solo tre per raggiungere la mia postazione e non mollarla piu' fino alla fine.

Il gruppo spalla e' imbarazzante: Slash e' perdonato per essere fuori tempo massimo ma i ventenni che propongono musica che era vecchia prima ancora che loro nascessero, vestiti in un modo che era vecchio prima dei Guns N' Roses, proprio non li capisco. Non si esce vivi dagli anni ottanta, neanche se si e' nati dopo il 1990.
Il mio compagno di avventure apprezza e io non ho davvero il coraggio di mettermi a fare l'intellettualoide europea anche stasera.

Finiscono, lasciano il posto ai roadies e le luci si accendono per permettere agli astanti di andarsi a prendere un'ultima birra prima dello show.

Poi il buio.

Parte una musichetta da circo e da dietro la batteria compare uno smiley dotato di cappello a cilindro e ghigno scheletrico: E' subito un boato.
Esce la band, esce Slash: cappello, bandana appesa al pantalone di pelle, occhiali da sole e riccioloni scuri, maglietta strappata a mostrare le spalle ricoperte da tatuaggi, fedelissima LesPaul imbraccio.
Ho davanti uno degli uomini che hanno dato un nuovo significato alla parola "coatto".
Sono passati ventotto anni da Appetite For Destruction e lui non ha cambiato una virgola: mette un filo di tristezza, ma poi attaccano a suonare e siamo tutti catapultati indietro.

In effetti nessuno comincia un concerto con una bomba a mano e in questo caso ad aprire le danze ci pensa un brano che non conosco, ma che e' sufficientemente potente per essere un ottimo inizio.
Poi arriva la bomba a mano, "Nightrain", ed e' un attimo: senza rendermene conto torno bambina delle elementari, e con me tutto il pubblico. Non sono i GNR, mancano tutti, manca Izzy, manca Duff, manca Axl, ma va bene cosi'.

E appunto, non sono i GNR, quindi seguono ancora un po' di brani che non conosco, poi il batterista attacca: turuttuttu-pa, turuttuttu-pa, turuttuttu-pa, turuttuttu-pa, turuttuttu-pa.... lunghissimo, senza fiato, abbiamo capito tutti cosa sta per succedere ma lui lo protrae, Slash lo protrae, vuole farci aspettare, vuole far salire il desiderio... turuttuttu-pa, turuttuttu-pa, turuttuttu-pa, turuttuttu-pa.... ed eccola la bomba a mano, "You could be mine": accidenti quant'era potente, da disco non si capiva, giuro!
E poi, cosi', arriva "Civil War", il primo brano che io abbia mai cantato in pubblico, alla tenera eta' di nove anni, in classe, davanti alla maestra e ai compagni, perche' facevamo questa cosa di preparare mensilmente a turno una piccola esibizione: "Civil War" e' stata la mia prima. Questa cosa mi emoziona e mi scappa una lacrimuccia (ma piccola) se penso a quella bambina che tremante era andata davanti alla cattedra con uno stereo da spalla e un microfono tremendo: ricordo perfettamente quanto ero rigida e intimidita, ricordo come tenevo la mano sinistra tesa dietro la schiena, stringendo il pugno per darmi coraggio. Non e' cambiato molto: tutte le volte in cui ho suonato in pubblico ho usato la chitarra a mo' di scudo. E' bello suonare in pubblico, e' spaventoso suonare in pubblico.
Ho realizzato in parte il sogno di quella bambina: sono seduta su una poltroncina di velluto e sto sentendo Slash suonare l'assolo di "Civil War".

Altri brani che non conosco e la differenza con i GNR si sente in modo drammatico: manca quella componente blues, quella magia della canzone in do maggiore dove a un certo punto scatta il re, manca un bassista degno di Duff (merce rarissima), manca un cantante con la presenza di Axl, anche se questo la voce ce l'ha e la imposta come Axl.

A riprova ulteriore (come se ce ne fosse bisogno) attaccano "Welcome to the Jungle" ed e' tutto un muoversi di teste, mani, piedi. Che brano incredibile...
Poi ancora, senza soluzione di continuita' "Rocket Queen", e in mezzo il Nostro ci mette un assolo di dieci minuti, forse piu'.
E' uno zappatore senz'appello.
Vorrebbe poter suonare note velocissime come tutti gli shredder dell'hard rock ma non puo', non e' il suo: il meglio lo da con il movimento morbido della mano destra, con il blues della sua LesPaul, col caos della coda che ha addirittura qualcosa di vagamente noise (forse solo perche' a far le note veloci si incasina, ma e' poi importante?).
E' rimasto uno zappatore, ma che meraviglia!

Ancora un altro paio di brani che non conosco e poi succede qualcosa che mi fa contravvenire ad ogni regola di buonsenso e civilta': precisamente succede questo.



E ci sono io, a nove anni (!), nel garage di mio "cugino" (non e' propriamente mio cugino, e' il figlio mio coetaneo di amici di famiglia, siamo cresciuti assieme, chiamiamo "zio e zia" i rispettivi genitori), lui suona la chitarra, altri due bambini sono uno alla batteria e l'altro al basso. Io non posso suonare perche' sono femmina (ah, il maschilismo becero dei bambini!) ma mi lasciano cantare, e "Sweet Child O' Mine" e' uno dei nostri cavalli di battaglia.
Ci voleva proprio.

Chiudono con un ultimo brano a me ignoto, il cantante presenta la band ed escono.
No, non si puo' finire cosi'.

Pausa.

Due ragazzi davanti a noi se ne vanno anche se non sono neanche state accese le luci: e' ovvio che c'e' un encore e trovo assurdo che non l'abbiano capito... sono strani questi canadesi...

Difatti torna, il buon Saul Hudson, torna con la LesPaul gia' imbraccio; quattro pennate come lasciate a caso, un accordo di sol tenuto li', poi un do lasciato a fermentare (gia' c'e' fermento, abbiamo tutti capito), poi in sequenza piu' rapida un fa, un altro do e un sol.
Delirio.
"Paradise City" e' una vera bomba atomica.
L'esplosione finale di coriandoli rossi ne e' testimone.

Alla fine, tra urla ed inchini, Slash lancia plettri alla folla: ne ha in quantita' industriali nelle tasche, tutti li' solo per essere lanciati. Siamo tutti in piedi, battiamo le mani e gridiamo.

Cammino verso casa con le orecchie che ancora fischiano.

martedì 15 settembre 2015

Gianni Maroccolo e Claudio Rocchi - VDB23 / Nulla e' andato perso [2015]

Una sterrata campagnola delimitata da imprecisati arbusti selvatici, un palo sghembo con un piccolo cartello "divieto di caccia" fa capolino sulla destra; al centro Rocchi e Maroccolo, in piedi uno accanto all'altro, guardano in macchina con un sorriso sghembo come se avessero il sole negli occhi: i colori sono ritoccati, troppo giallo sulla destra e troppo rosso sulla sinistra, ma dalle ombre si capisce che la foto e' stata scattata in prossimita' del tramonto. In alto a destra i nomi degli autori, appena sotto il titolo dell'album, entrambi in "papyrus" o qualcosa che gli somiglia moltissimo.

Play.

Un breve (?) preambolo.

A giudizio di chi scrive Gianni Maroccolo e' una sorta di Re Mida del panorama musicale italiano: tutto cio' che tocca, se gia' non lo e' di suo, si trasforma in oro. Stiamo parlando di uno splendido musicista, un raffinato arrangiatore, un attento produttore e piu' in generale un essere umano di notevole sensibilita', uno che quindi non puo' che circondarsi di musicisti (ed esseri umani) di par fatta.
Nel duemilaedodici viene assalito dalla sensazione di aver detto musicalmente tutto quello che aveva da dire, che la sua avventura nel mondo della "musica suonata" volge ormai al termine, che e' ora di mandare in pensione il basso e darsi alla produzione, sicche' lascia in rete una specie di messaggio di pre-addio e si mette al lavoro: il progetto si chiama VdB32, Via de' Bardi 32... da li' si e' cominciato e poesia vuole che li', in un certo senso, si debba finire.

Claudio Rocchi e' un altro gigante ma di provenienza totalmente diversa: ahime' le mie radici musicali provengono da tutt'altra direzione, quella maroccoliana per l'apppunto, e questo mi rende terribilmente ignorante in fatto di rock-psichedelico, troppo ignorante per poterne parlare con cognizione di causa. Chiedo perdono, so bene di dover rimediare.
Quel che so per certo pero' e' che era malato, Rocchi, irrimediabilmente malato, tanto da sapere di non avere molto davanti, anche se nel duemilaedodici non poteva quantificare il suo Tempo con certezza.

Poi capita qualcosa; cosa esattamente non lo so e capisco che non mi riguarda, ma questo qualcosa spinge Marock a inviare un po' di parti registrate all'amico Clarock il quale non la manda a dire: non accetta la rassegnazione dell'amico, cambia il 32 in un 23 (il numero della rinascita), trasforma le "Storie di un suonatore indipendente" in un sapienziale "Nulla e' andato perso" e somma la sua poesia e la sua voglia instancabile alle creazioni dell'amico, producendo cosi' la giusta sinergia positiva necessaria per dare vita a un vero e proprio capolavoro.
Si', mi sbilancio: si tratta di un capolavoro.

Nel 2013, poco dopo la scomparsa di Clarock, l'album e' stato reso disponibile ai pochi eletti raisers. Tutti gli altri, ad esempio quelli che come me all'epoca non erano abbastanza dentro le reti sociali da sapere dell'esistenza dei crowdfundings, non appena hanno saputo si sono mangiati le mani.
Poi col tempo (forse dopo aver metabolizzato la perdita dell'amico?) Marock ha deciso di farci un bellissimo regalo e rendere questo lavoro disponibile a tutti, anche a chi lo compra da piu' di 6000km di distanza e deve attendere una spedizione trans-oceanica per poterlo ascoltare.

Ma quale incredibile meraviglia!

La pesante inquietudine elettro-post-punk maroccoliana (gia' dal primo giro di basso si riconosce la sua inconfondibile firma) si amalgama perfettamente con le eleganti scelte di Rocchi e la sua poesia luminosa e toccante.
La parola "canzone" non si adatta ai brani che compongono quest'opera: sono lunghe suites dai suoni lunghi, lunghissimi, che partono dal rock incalzante e angoscioso della prima traccia e si sciolgono (con un processo lento ed impercettibile eppure inarrestabile) nel calmo sapore d'India della brevissima traccia finale, dove la voce narrante (dell'amico Peri in effetti) sembra addirittura sorridere di stupore emozionato, di quella gioia inafferrabile ben descritta dalla musica che l'accompagna.
Catarsi, potenza e dolcezza, oscurita' che si fa luce, la stanchezza dell'uno che, sedendo accanto alla serenita' zen incomprensibile dell'altro, subisce una metamorfosi: un insegnamento importante per quelli che rimangono all'ascolto col cuore aperto.
Maroccolo fino infondo, Rocchi fino in cima.
E gli amici, quelli veri, che vengono dichiaratamente ad abbracciare i due con le loro voci e i loro strumenti.

Continuo ad ascoltare quest'album senza posa: ho una lunga coda di dischi che mi attende eppure non riesco a staccarmi da questo.

Davvero?, davvero Claudio hai potuto scrivere quelle parole e cantarle senza scoppiare in lacrime?, dove mai si nascondeva la tua forza?, dove mai si nasconde la forza delle persone come te, come voi, meravigliosi esseri umani che con un incredibile sorriso e instancabile energia andate a testa alta incontro al Nero?, come riuscite a non lasciarvi abbattere?
Ma forse e' "solo" ironicamente logico che la reazione Umana (ma solo per gli Uomini con la "U" maiuscola) piu' profonda e naturale sia quella di darsi alla Vita in ogni sua piu' piccola sfaccettatura, tuffandosi a capofitto nelle proprie passioni o anche solo andando a vela una domenica pomeriggio di fine estate, o raccogliendo le mele dall'albero in giardino per farne della marmellata.

Capisco (...dio!) che lavorare accanto ad un Uomo e amico cosi' deve aver dato una spinta di Vita incredibile a Marock, che infatti sta tuffandosi di nuovo nella musica con piu' forza che mai.
Lo capisco, lo so.

E dunque eccoli qui i due amici, Rocchi e Maroccolo, Rigel e VDB23, l'esplosione dell'uno nella rinascita dell'altro, cio' che e' stato e cio' che rimane: "una storia che, infondo, e' appena cominciata".


Lista delle tracce:

VDB23
Torna con me
Nulla e' andato perso
Rinascere Hugs Suite
La Melodie de Terrence
Tutti gli Uomini - Tutte le Donne
LD7M (Les Dernierès 7 Minutes de mon Pere)
Una corsa
Rigel & VDB23

sabato 12 settembre 2015

Un passo avanti



Sonkal = taglio della mano
Naeryo = verso il basso
Taerigi = colpo


(mi mancava solo il coreano...)

mercoledì 9 settembre 2015

Promemoria


  • Be willing to go where the going may be tough and do the things that are worth doing even though they are difficult.
  • Be gentle to the weak and tough to the strong.
  • Be content with what you have in money and position but never in skills.
  • Always finish what you begin, be it large or small.
  • Be a willing teacher to anyone regardless of religion, race or ideology.
  • Never yield to repression or threat in the pursuit of a noble cause.
  • Teach attitude and skill with action rather than words.
  • Always be yourself even though your circumstances may change.
  • Be the eternal teacher who teaches with the body when young, with words when old, and by moral precept even after death.
- Gen. Choi Hong Hi, (Encyclopedia of Taekwon-do, Vol.1)






(Il suo inglese non era un gran che ma non si possono sfiorare le sue parole, neanche con delle correzioni grammaticali)

martedì 8 settembre 2015

CNE reprise - occhi europei

Recentemente si e' unita al dojang una ragazza nuova; ha un paio di anni meno di me, e' qui per un postdoc in ingegneria dei materiali e viene dall'Austria.
E' un anno che aspetto qualcosa del genere; gli Hamiltoniani sono deliziosi, questo e' fuori discussione, ma io non appartengo a questo posto e il mio sguardo si posa su persone, luoghi, oggetti e cibo in modo irrimediabilmente diverso da come fanno loro: condividere certe impressioni con una mia coetanea europea che non sia qui per vacanza ha il sapore dolce del non sentirsi piu' l'unico animale esotico.

Da una settimana progettavamo di fare qualcosa assieme per il labour day e alla fine la scelta e' ricaduta sulla CNE, esperienza che un europeo che si trovi a vivere in nordamerica deve fare, perche' bisogna capire.

Non si puo' dire ad alta voce, ma e' forse l'ultimo giorno di questa estate incredibile: il cielo e' perfettamente azzurro, fuori ci sono trenta gradi, la festa ci avvolge.
Io sono quella che conosce la strada e si orienta, la mia compagna di avventure, essendo crucca, e' quella dotata di mappa e lista degli eventi del giorno: c'e' lo show degli aereoplani (quelli antichi, quelli acrobatici, quelli supersonici e i voli sincronizzati), un gruppo di ragazzi che fa parkour, e un altro gruppo che salta con trampoli a molla.
C'e' lo stand di una tizia che giura di poter indovinare l'eta' con uno scarto di due anni al massimo; tenendo conto che di solito me ne danno almeno cinque o sei di meno (una volta, qualche mese fa, anche tredici di meno, ma vabbeh) decido di sfidarla. Devo essermi presentata con un'aria troppo baldanzosa e lo sguardo che diceva "non lo indovinerai mai!" sicche' la tizia ha voluto sparare troppo in la' dandomene nove (nove) di piu'. Non mi era mai successo prima e rido di gusto: vinco un piccolo peluche a forma di mucca che sara' prontamente regalato ad Ofelia.

E gente, e cibo, e quell'immancabile odore di fritto che nessun racconto potra' mai spiegare.

"Dimmi qualcosa che pensi non si possa comprare qui" dice la mia amica con occhi divertiti.
"Un frutto" rispondo io senza pensarci un secondo.
Ridiamo come pazze.

Ci guardiamo intorno e a volte non c'e' neanche bisogno di commentare: leggiamo l'una negli occhi dell'altra l'impressione che fa l'idea di un panino "bacon e nutella" (sic) eppure ci lasciamo trasportare dall'euforia e dividiamo un mars impastellato e fritto, ovvero una di quelle cose che vanno fatte per poter dire a pieno titolo "ho vissuto in nordamerica".

I nostri occhi europei, pur differenziati dal suo esser crucca e il mio esser latina, pur venendo da conflitti indimenticabilmente dilanianti e nonostante la barriera linguistica la cui inevitabile conseguenza e' che tra noi comunichiamo con la lingua di coloro che ci ospitano, i nostri occhi europei, dicevo, hanno una base di fondo comune che con la gente di qui non riesco a trovare.
Vienna e Roma, capitali imperiali, luoghi di cultura, anime millenarie, si incontrano a Hamilton (On) e si riconoscono come parenti.
Alla CNE c'e' anche la fiera medioevale e vorremmo vederla: noi il medioevo sappiamo cos'e', loro no, hanno il nostro, sarebbe buffo vederlo attraverso i loro occhi, ma oggi e' chiusa percio' niente da fare. Ci consoliamo con uno spettacolo di danze indiane nel senso dell'India.

La vecchia Europa e' in me, nei miei modi, nei miei gesti, in cio' che trovo sensato e cio' che mi fa ridere; e' bello capire una volta di piu' che quello e' il lato dell'Atlantico che fa parte di me, e' doloroso pensare che potrei non viverci piu'.

domenica 6 settembre 2015

Barbecue con concerto

Volenti o nolenti, prima o poi si arriva al finesettimana del "Labour day", festa che da qui mi sembra estremamente affascinante; il "Primo Maggio" sarebbe troppo comunista e non si puo' fare, ma festeggiano il primo lunedi' di settembre: per questa gente l'anno scolastico/accademico/lavorativo comincia con l'ultima festa dell'estate, con la festa del lavoro. Psicologicamente dice molto.

Sono stata invitata a un barbecue in giardino, perche' la festa e' lunedi' ma come noialtri ben sappiamo questo di sette e' il più gradito giorno:  mi dicono "porta la chitarra elettrica o il basso" e io, doppiamente incuriosita, opto per la rossa diavoletta. Non sara' mai estratta dalla sua custodia ma poco male.

L'evento si svolge in quel di Caledonia, frazione di Hamilton raggiungibile in soli 20 minuti se si ha una macchina e irraggiungibile altrimenti; questa cosa ancora mi mette psicologicamente in difficolta', perche' da dove vengo io magari uno non puo' fare affidamento sui tempi di autobus e treni, pero' almeno in principio si puo' raggiungere qualsiasi posto... qui semplicemente no.
Ma vabbeh, la padrona di casa passa a prendere me, suo fratello (ovvero l'amico che mi ha invitata) e il figlio di suo fratello.

Il giardino e' ampio, dalla casa vi si accede passando per un patio in legno su cui stanno mondando batteria e amplificatori; qualcuno si occupa del barbecue, qualcuno dell'alcol, qualcuno fa girare erba ricreativa, e' una festa di famiglia ed e' coinvolta la famiglia allargata: padri, madri, mogli e mariti, ex-mogli ed ex-mariti, figli, zii e cugini, vecchi e nuovi amici.
Il grande cuore sereno di questa gente e' cio' che piu' mi piace.

Mi offrono del cibo che in confronto gli stand che ho visto alle fiere sembrano salubri: la cosa peggiore in assoluto, la cosa peggiore che io abbia mai visto (e ahime' mangiato) e' una pasta scotta (e sin qui) condita con una salsa prevalentemente a base di maionese. Anzi, una salsa prevalentemente a base di maionese in cui compare della pasta scotta: poi uno si domanda il perche' dell'obesita' in nordamerica!
Ormai dovrei esserci abituata eppure mi colpisce ogni volta.
Da queste parti le persone vere inseriscono quotidianamente delle sostanze nocive nei loro corpi, bevono pessimo alcol e altre strane sostanze dai colori sgargianti; ogni volta, giuro, ogni volta mi viene in mente Idiocracy.
Mi sembra incredibile che il mio amico venga da qui; lui e' chiaramente diverso e se ne rende conto da solo: ha viaggiato, ha studiato, legge, pensa. Ai miei occhi ha si' qualche inevitabile tratto hamiltoniano, ma chiunque si renderebbe conto che ragiona in modo diverso dagli altri, anche solo per il fatto che parla un inglese grammaticalmente corretto e si porta da casa la sua birra e la sua insalata... mentre gli altri lo guardano con uno strano sentimento misto di ammirazione e fastidio, io capisco chiaramente il motivo per cui siamo amici.

Arriva quindi il momento del concerto; tutti in cerchio, seduti su sedie da giardino, ascoltiamo questa band caserccia che mi ricorda il gruppo in cui mio padre suonava quando ero piccola, con la differenza che il cantante di questi e' stonato: si impegna tanto poveretto, ma proprio non riesce.
Ed e' rock anni sessanta-settanta, non si va oltre.
Mai.
Io siedo, ascolto, mi lascio trasportare da pensieri sconnessi.

Intorno alle nove e mezza passa la polizia chiamata da qualcuno nel vicinato, quindi la musica finisce: poco dopo la madre del mio amico e il suo compagno ci riportano indietro.

Irrimediabilmente, durante tutta la serata, la radio nella mia testa non ha fatto che suonare questa.