mercoledì 9 novembre 2016

Chomp & Stomp

Squarci di terronia statunitense, di vita che non ti aspettavi ma c'e', e' tanta, esalta.

Pare che Atlanta sia famosa per i festival nei suoi innumerevoli parchi ed io ovviamente ho voglia di approfittarne; uno dei miei nuovi amici, imparando a conoscermi, ha portato alla mia attenzione quello che in Italia avremmo chiamato "la sagra del Chili" e che a me, inevitabilmente, fa venire in mente questo: entusiasta come una bambina alla vigilia di Natale, accetto l'invito.

Il posto non e' lontano, il sole splende, la temperatura ancora consente di stare in sandali e maglietta; arriviamo in bici, parcheggiamo e ci mettiamo in fila: non c'e' un biglietto d'ingresso ma si pagano 5 USD per un cucchiaio di plastica, piu' 6 se si vuole anche un gettone per la birra, sicche' tirati fuori gli 11 USD a testa ci addentriamo per le vie di Cabbagetown, per l'occasione chiuse al traffico.
Sono le undici e mezzo, la festa non e' ancora davvero cominciata, passeggiamo amabilmente e osserviamo l'ambiente, raggiungiamo uno spiazzo sull'erba davanti a un palco dove una banda di vecchietti di paese suona bluegrass e ci sediamo in attesa del via.

Verso mezzogiorno e mezzo ci lanciamo.

C'e' una via di stand, uno di fianco all'altro, ciascuno offre chili in bicchierini di carta: tu vai li', prendi un bicchierino e ne mangi il contenuto con l'apposito cucchiaio di plastica che hai comprato all'ingresso. And that's it. Che se uno si fosse portato un cucchiaio da casa risparmiava 5 USD, ma il bello e' anche questo.
C'e' una ressa incredibile, file interminabili di persone, si mangia un bicchierino di chili e ci si mette in fila al prossimo stand, uno dopo l'altro, finche' se ne ha voglia, finche' lo stomaco si ribella e chiede pieta'.
Io mi sento piu' felice di un bambino davanti all'albero di Natale la mattina del venticinque dicembre, perche' come disse un ex-ragazzo di mia sorella "Co' 'e sorelle C. ce spendi de meno a compraje er brillocco che a portalle a cena: er probblema e' che er brillocco to'o tirano appresso". Era un signore per linguaggio e contenuti, non c'e' che dire, ma sapeva di cosa parlava.
Carne, fagioli, sugo di pomodoro piccante, verdure ammollate, spezie varie: ogni chili e' diverso, ogni assaggio e' una scoperta, gente che ride intorno... saranno pur scemi 'sti americani, ma si sanno divertire!
E io mi diverto.

Quando non ne abbiamo veramente piu' andiamo rimediare una birra e fare due passi tra le bancarelle di artigianato locale, anni luce piu' vicine al mio stile di quelle che avevo visto nelle analoghe occasioni cui avevo partecipato quando vivevo nella terronia Canadese, ma qui siamo in citta', e non una citta' qualsiasi: questa e' la capitale radical-chic della terronia, ovvero il paradiso.

Bastava cosi' poco per essere felici?

giovedì 3 novembre 2016

Mike Mills & Robert McDuffie @ Schwartz Center for Performing Arts - Atlanta

28 Ottobre 2016

La vita della terronia statunitense e' frenetica: tante sono le cose da fare che arrivo a far passare quasi una settimana prima di trovare il tempo per recensire questo concerto... mea maxima culpa, ma infondo mi domando a chi mai importi di leggere quel che ho da scrivere.
Tant'e'.

Mike Mills non avrebbe bisogno di presentazioni, certo non da me che vivo ad Atlanta da neanche tre mesi: bassista e fondatore dei R.E.M., e ho detto tutto. Ricordo a chi non fosse ferrato in geografia che Atene (GA) e' a meno di due ore di macchina da qui. Mi dicono sia una cittadina universitaria deliziosa: prima o poi tocchera' che io vi faccia un pellegrinaggio.
Robert McDuffie era un compagno di liceo di Mills, uno dei suoi piu' cari amici all'epoca; le strade dei due si sono relativamente separate da allora: bassista di uno dei gruppi fondamentali nella storia del Rock uno, pluripremiato violinista classico l'altro.
Finche' non molto tempo fa al nostro Mills viene in mente l'idea di scrivere un Concerto per l'amico, una cosa che metta insieme la tradizione Classica con quella Rock.
Detto, fatto: scritte le parti, registrato un album, si va in scena.

Mi accompagno con uno dei miei nuovi amici, uno cui non riuscirei a proporre un concerto rock come si deve ma quanto a musica classica e' anni luce avanti a me: chissa' che da quest'amicizia non si possa imparare reciprocamente qualcosa di bello.

Il luogo scelto da Mills&McDuffie e' il teatro di Emory, la terza universita' di Atlanta, quella privata: scelta curiosa, ma fino a un certo punto.
Un Uber porta il mio amico e me dalla zona dove entrambi viviamo fino al campus, poi ci perdiamo un po' tra gli edifici universitari e arriviamo al teatro giusto in tempo per sederci ai nostri posti.

Entra McDuffie con due donne, si presenta, scherza un po' sul fatto che venderanno i CD all'uscita "per pagare l'aereo privato della rock-star" e introduce la prima parte della serata: un'opera in tre movimenti di un compositore moderno ("Road Movies" l'opera, John Adams il compositore) che "certo non e' un grande classico, ma mi sono divertito molto a impararla... vedrete, e' una specie di cubo di Rubik".
E attaccano, lui e la pianista (la seconda donna e' li' solo per girare le pagine dello spartito).
Gira la testa a cercare di star dietro al procedere ipnotico del piano mentre il violino sfiora il noise: no, non e' un grande classico, ma trovo sia davvero bellissimo.
Il secondo movimento, delicato, lascia letteralmente senza fiato: quando termina mi ritrovo ad emanare un profondo sospiro.
Il terzo movimento e' uno swing folle che torna a far girare la testa e ammalia per tecnica ed eleganza.
Al termine siamo tutti in piedi ad applaudire.

Escono.

Entra l'orchestra di archi.
Una dei violinisti, una ragazzetta dall'aria dolce, si avvicina al microfono per una breve presentazione: sono di Chicago, suonano musica da camera, sono emozionati di essere qui e dividere il palco con Mills, suoneranno una sinfonia di Philip Glass. Ci dice che la prima parte della sinfonia e' come un battito, poi comincia a trovare un senso ed entrare nella musica vera e propria, poi esplode e il finale... beh, e' puro Rock.
Ed e' proprio cosi'.
Difficile descriverlo meglio di come ha fatto questa ragazza: splendido.
Escono.

Intervallo.
Il mio amico ed io usciamo a prendere una boccata d'aria e comprare il CD (era inevitabile che lo facessi); quando rientriamo gli equilibri sul palco sono cambiati: sono comparsi gli amplificatori di chitarre e basso e al centro campeggia una batteria, circondata da una gabbia di plastica trasparente per attutirne il volume e renderlo compatibile con gli archi.

Rientrano gli archi di Chicago, entrano due chitarrisiti e il batterista, entra McDuffie e alla fine, nel tripudio dei ragazzi seduti qualche posto alla mia destra, entra Mills.
Il Nostro si avvicina al microfono per una breve presentazione; vuole dirci che quest'idea di mischiare rock e musica classica e' un modo di abbattere un muro che non dovrebbe esistere; vuole dirci che il volume sara' piu' alto di quello cui siamo abituati (guardando le vecchiette in prima fila sono d'accordo, ma sorrido tra me pensando all'ultimo concerto che ho visto a Toronto); vuole dirci che non vogliono un concerto formale, che siamo autorizzati non solo ad applaudire tra un movimento e l'altro, ma anche e soprattutto nel bel mezzo di un brano, proprio come a un concerto Rock, battendo le mani se qualcosa ci piace, magari anche urlando, perche' no.
Sorrido.
Alla fine del discorsetto un tecnico porta via il microfono e si parte.
Ed e' subito R.E.M..
Dicono che si tratta un ponte verso la musica classica perche' ci sono gli archi, perche' c'e' McDuffie che e' un vero virtuoso dello strumento, ma questo che stiamo ascoltando e' puro Mills al 100%, ne ha i tempi, i modi, l'essenza, l'energia che tocca il suo punto massimo con il terzo brano. C'e' anche una versione di Nightswimming (che mi caccia una lacrimuccia e un pensiero alla soffitta polverosa che chiamavo "casa") riarrangiata affinche' McDuffie possa coprire il ruolo di Stipe arricchendone la melodia.
Io, immobile, ammaliata, ascolto.
Ascolto e penso.
Penso che "musica classica" e' un'etichetta bislacca.
Che Beethoven (per dirne uno) quando era in vita non si considerava "classico" ma innovatore.
Che la musica e' espressione e comunicazione di qualcosa, un'idea, un sentimento, un pensiero, un'emozione. un individuo, una comunita', un momento storico, e che le etichette servono agli imbecilli per identificarsi sotto una bandiera.
Che un'autore, in questo caso Mills, e' prima di tutto se' stesso, ed e' se' stesso che mette nello strumento che suona, nelle note che compone: tutto il resto sono parole inutili che servono solo per farcire recensioni sulle riviste specializzate o sui blog amatoriali.
Che a me la musica di Mills piace molto, ma che il potere dei R.E.M. era nell'amalgama, nella voce di Stipe, nelle sue poesie, e qui se ne sente un po' la mancanza: ci ho messo anni a mandar giu' i R.E.M. proprio perche' li consideravo troppo facili e leggeri, perche' non mi soffermavo ad ascoltare a cuore aperto...
E mi torna prepotente alla memoria una sera di tanti anni fa (una vita fa!) in cui suonavo e cantavo "Losing my Religion", una delle tante volte che l'ho fatto, una in particolare. Ricordo tutto, dall'ambiente intorno, al modo in cui ero seduta sul letto, alla luce nella stanza... suonavo e cantavo a memoria... e a un certo punto mi sono immobilizzata... avevo ascoltato per la prima volta le parole che stavo cantando... mi sono fermata e ho esclamato "Bellissimo!" con voce rotta... e la persona accanto a me rideva nel realizzare che per tanti anni avevo cantato quelle parole come se fossero dei semplici suoni emessi dalla bocca invece che dalla chitarra... rideva e non capiva cosa mi avesse messa in ginocchio...
I R.E.M. senza Stipe perdono qualcosa di importante.
Torno in me: certo che questo McDuffie e' proprio forte!

Suonano circa un'ora, poi si prendono gli applausi ed escono.
Ma questo non e' un concerto di musica classica, ci vuole il bis, sicche' rientrano dopo neanche un minuto e ci suonano di nuovo il terzo brano, quello piu' energico, quello in cui McDuffie aveva mostrato il meglio del suo virtuosismo. Ecco, questa cosa del riproporre un brano mi spiazza ma vabbeh, cose strane accadono quando si fanno commistioni strane.
Alla fine e' standing ovation.

Soddisfatti e felici il mio amico ed io andiamo a discutere di musica davanti ad un hamburger della terronia statunitense, cosi', per chiudere in bellezza la serata.

lunedì 31 ottobre 2016

Un giorno, un mese, una vita

Chi lo avrebbe mai detto?

Tre anni e mezzo fa, in occasione di quella breve visita da queste parti, mi capito' di fare una chiacchierata con un professore di qui; per altro non uno a caso, ma uno il cui libro di sistemi dinamici (scritto a quattro mani ma vabbeh) mi aveva scaldato il cuore quando ero al terzo anno di universita'.
Insomma, proprio lui mi disse di considerare l'idea di venire qui, che sarebbero stati felici di avermi se mai ne avessi avuta voglia.
Ricordo che annuii educatamente e ringraziai dicendo che ci avrei pensato ma non era vero: in quel momento avevo ben altri progetti, molto lontani dal nordamerica, il mio cuore era a 7650 km da Atlanta, metro piu', metro meno.
E non ho mai fatto mistero della mia antipatia nei confronti dell'Impero.
Eppure.

Eppure, finalmente, sono a casa.
La terronia statunitense mi si confa' assai piu' di quella canadese e non solo dal punto di vista climatico, che certo non e' fattore da trascurare.
Sembra impossibile ma e' cosi': nel grande sud dell'Impero, mi sento a casa come non mi capitava da tre anni e mezzo, come se tutto cio' che e' stato da quella prima visita non sia stato che un'enorme parentesi, una pausa dalla vita vera.
Ho trascorso qui poco piu' di due mesi e mi sento a casa come li', nell'Ontario del sud, non e' stato mai in quei due anni che mi son parsi eterni; e ho gia' piu' amici qui di quanti ne abbia mai avuti li'.

Ci sono stata davvero a Hamilton?, ero io quella che ha fatto amicizia con la ragazza che vendeva le mele al mercato?, e il Portoghese dell'olio era vero?, Gli O., Master H., la neve, il "mio" lago... e' successo davvero?
Si', e' successo davvero: se oggi sono la persona che sono lo devo anche al cielo basso e greve del sud Ontario, agli allenamenti, alle pedalate a meno venti, a York Boulevard.
Eppure.

Eppure a volte mi pare che non sia cosi'.
I ricordi del Canada scivolano dalla mente come acqua, impalpabili, quasi fossero finti.
Anche il contorno non sembra che una favola, una storia che non mi appartiene, raccontata da un'altra persona. Strana storia: era vera?, e' successo?, ero io?

domenica 2 ottobre 2016

Tycho @ Variety Playhouse - Atlanta

28 Settembre 2016

Non lo ho ancora capito se Atlanta e' come la Citta' (maiuscola, quella) ma di certo la sensazione e' che abbia molto da offire: il cielo e' blu, le foglie sugli alberi crescono rigogliose, la gente e' allegra e la vita si fa ogni giorno piu' entusiasmante.

Sto scoprendo inoltre le gioie vere di possedere uno smartphone: il mio rapporto con la tecnologia e' sempre leggermente freddo, ma quando il telefonino e' in grado di dirti quali concerti ci sono nel raggio di 10 kilometri da casa, non solo segnalando gli artisi conosciuti e amati, ma anche quelli che "forse ti interessa visto che ti piace XXX", e' chiaro che il mio cuore si riscalda.
Mercoledi' scorso, per l'appunto, il telefonino mi dice che, dato il mio interesse per gli Explosions in the sky, forse potrebbe per me aver senso andare a sentire i Tycho. "E chi sono i Tycho?", mi domando io... ma fiduciosa salto su un Uber e parto all'avvenutra.

Arrivo al Variety Playhouse e realizzo con orrore che lo spettacolo e' sold out.
Potrei decidere di tornarmene a casa ma a questo punto sono ancor piu' incuriosita: mi metto quindi fuori, insieme agli altri avventori dell'ultimo minuto, alla ricerca (sic!) di bagarini. Quando sono ormai sul punto di arrendermi sento due tipi dire a una coppia qualcosa come "noi abbiamo un biglietto in piu' ma solo uno e lo abbiamo pagato 90 dollari...". Mi inserisco "Novanta no per un gruppo che non ho mai sentito nominare: posso spingermi fino a 50". Ci stanno, gli do i 50 USD ed entriamo.

Una volta dentro ci separiamo e mi guardo intorno alla ricerca di un posto dove godermi lo spettacolo.
E' una specie di teatro, con una zona centrale dotata di polotrncine di velluto e due corridoi laterali e la zona appena sotto il palco per chi vuol ballare; cercherei una poltroncina ma sono tutte prese percio' mi apposto in uno dei due corridoi e aspetto.
Dopo un po' uno dei due tipi con cui sono entrata mi viene a cercare dicendo che hanno trovato tre posti a sedere e invitandomi a unirmi a loro: accetto volentieri, sembrano simpatici e di stare in piedi non mi va per niente.

Non e' il Canada ma e' comunque nordamerica e il ragazzo-spalla non si fa attendere.
Entra solo, agguanta una finta telecaster e suona quattro, forse cinque pezzi strumentali, con sapiente utilizzo del registratore-riproduttore di suoni a dar l'impressione che sul palco di chitarristi ce ne siano almeno tre che ripetono ossessivamente ritmi a meta' tra il folk e il post-rock.
Giovanotto interessante, alcuni passaggi fanno proprio godere le mie orecchie, ma purtroppo non riesco a scoprire come si chiama.

Al termine del tempo concessogli saluta ed esce.
Mentre i tecnici riassestano il palco, sullo sfondo viene proiettata la foto di un paesaggio alpino innevato e uno dei miei compagni di viaggio mi spiega che tutto il concerto sara' cosi', musica e immagini, che uno dei membri del gruppo (il "main guy", dice) e' anche curatore dell'artwork dei dischi, dei poster e cosi' via.

Non lasciano aspettare molto, siamo nelle americhe e domattina tutti si devono svegliare per andare al lavoro.
Entrano dunque i Tycho: batteria, moog, basso (ma a tratti suonera' anche una chitarra) e un altro moog (ma a tratti suonera' anche una chitarra).

Fanno un post-rock elettronico che mi fa pensare piu' agli Air che non agli Explosions in the sky, sono ipnotici nei loro ritmi pseudo-danzerecci e nei suoni morbidi e avvolgenti.
Le immagini sul fondo variano da paesaggi marini, figure caleidoscopiche, visioni oniriche, cieli infiniti, spazi profondi.
Mi torna in mente quella serata in Citta', in cui i Godspeed you! Black Emperor ci avevano ipnotizzati, e una volta di piu' capisco come le differenze climatiche possano influenzare la percezione dell'individuo sulla musica e sulla vita. Il collettivo di Montreal mandava immagini di freddo e tempeste, venti gelidi, calamita'; questi hanno dentro la luce californiana di chi gira in magliettina per dodici mesi l'anno, cosicche', con la loro musica di sottofondo, anche le montagne innevate sembrano un posto caldo, accogliente e felice.

Noi intanto seduti e ammaliati, muoviamo le teste e parte delle spalle; ci sarebbe di che ballare ma nessuno lo fa: anche quelli in piedi, sotto il palco, al massimo ondeggiano leggermente.

L'evvoluzione della musica colta mi colpisce.
Sto assistendo a uno spettacolo di cultura moderna, circondata da colto pubblico cittadino del sud-nobiliare dell'impero moderno, nella citta' dove ormai anche Hollywood si sta trasferendo per ragioni economiche.
E ci sono io, in mezzo a tutto questo, e penso a quelli che ascoltavano un concerto di Beethoven quando Beethoven era vivo ed era la novita', e chiamavano Mozart "classico" e Beethoven "barbaro moderno", ma ci andavano e se lo gustavano.
Poi uscirono le opere, che avevano le parole e quindi erano ancor piu' barbare agli occhi dei colti del tempo; finche' (orrore!) e' stata inventata la chitarra elettrica, e da li' si e' persa l'idea dell'evoluzione, si e' sentito uno strappo e non si e' capito che si trattava dello stesso tipo di processo.
Cambiando gli strumenti e' ovvio che cambi il modo di fare musica.
E in questi anni, finalmente, qualcuno sta prendendo in mano i sintetizzatori in modo ragionato per dire qualcosa.
Perche' la musica, quella vera, e' comunicazione.
E questi ragazzi ci comunicano un universo psichedelico e gioioso con cui entrare in comunione.
E c'e' di che chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare.

Nella pausa che precede il bis la gente intorno a me chiede a gran voce un brano, tutti lo stesso, evidentemente un grande successo; lo eseguiranno come secondo brano dell'encore e boh?, mi colpisce meno di altri, ma dovrei dargli un secondo ascolto piu' attento.
In ogni caso sono decisamente soddisfatta di cio' che sto ascoltando.

All'uscita comprero' un album a caso, anzi, l'unico in formato CD visto che gli altri erano solo in vinile (ah, i nuovi giovani radical-chic... devo comprare un lettore di vinili!) e prima o poi ve (ma voi chi?) ne rendero' conto.

Un altro Uber mi riporta a casa, sono le undici e mezzo, l'ora in cui sarebbe cominciato lo spettacolo se fossimo nella vecchia Europa; tutto sommato questo stile mi piace: domattina andro' al lavoro riposata e felice.
Bene.

sabato 24 settembre 2016

Nick Cave & the Bad Seeds - Skeleton tree [2016]

Nero inchiostro, nessuna immagine, nessuna luce o trasparenza, solo nero ad eccezion fatta del nome della band e il titolo dell'album, uno sotto l'altro scritti in un verdazzurro fosforescente e caratteri da shell linux. Appena sotto, il tipico trattino-basso di quando il computer e' in attesa di istruzioni.

Play.

Sia lode e gloria al Re Corvo Nero.

Provo un certo orrore di me stessa nello scrivere di questo album, eppure una forza potente di espiazione mi costringe a farlo.

Spiego.
Generalmente tendo a considerarmi una persona dotata di una certa empatia, e' il mio vanto e il mio tormento, eppure a volte tocco delle punte di cinismo glaciale che mi spaventa.
Poco piu' di un anno fa, quel maledetto 14 luglio, ero con una delle mie migliori amiche (per altro la stessa mia compagna d'avventure in vari concerti, tra cui questo) e sua figlia, venutemi a trovare ad Hamilton per le vacanze estive. Eravamo andate a far colazione con uova e bacon (e salsicce, e patate, e pancackes... oh, io la mattina ho fame!) in un posto di quelli aperti h24, uno di quelli che odorano di malsano e sugna, una di quelle cose che vanno provate almeno una volta per poter dire di essere stati in nordamerica; eravamo li' dunque, pronte a gustarci una luminosa giornata di soleggiato luglio-canadese, quando alla tv del locale passa la terribile notizia: il figlio di Nick Cave e' caduto da una scogliera, si e' schiantato al suolo ed e' morto.
Dopo un primo momento di inevitabile smarrimento sorprendo me stessa nel sentire la mia stessa voce esclamare "Il suo prossimo album, se riesce a farne uno, sara' bellissimo!".
La mia amica aveva sbarrato gli occhi al mio indirizzo: come potevo io pensare una cosa del genere di fronte a un lutto cosi' straziante?, come ho potuto dirlo ad alta voce?, che razza di mostro senza cuore puo' concepire un pensiero simile?, davvero non riuscivo a sentire l'uomo-Cave e il suo tormento?, la mia mente lo capiva ma il mio cuore non lo sentiva, come se si trattasse di una delle sue favole-dark, non di vita vera... perche' non ho provato niente in quel momento?
Orrore.

Certo pero' che avevo ragione: si tratta di un album davvero bellissimo.
Trentanove minuti e quarantasei secondi torcibudella.

Musicalmente l'impressione e' che Skeleton Tree si inserisca perfettamente dietro la scia di Push the sky away, che fra l'altro (a pensarci) e' stato l'album della mia prima recensione su queste pagine, quando ancora non mi era chiaro che piega avrebbe preso questo blog.
Suoni lunghissimi di organi, archi e sintetizzatori, quasi totale assenza di ritmi identificabili, infiniti tappeti arabescati, immancabilmente firmati Warren Ellis, avvolgono la voce del Re Inchiostro e l'accompagnano tenendola per mano.
Direi anzi che questo nuovo lavoro esalti all'ennesima potenza le intuizioni stilistiche del precedente, spingendosi la' dove quello non aveva ancora osato arrivare.

Ma qui ovviamente la voce trema, piange, irrimediabilmente spezzata per sempre, invecchiata senza scampo da un giorno all'altro: vuoto, vuoto, vuoto.
In Push the sky away si poteva ancora perder tempo a pensare alle vite passate, alle infamie, alle gioie, alle delusioni da allontanare, alle occasioni perdute: si poteva ancora ballare un sexy-blues selvaggio.
Ora no, non piu'.
Niente piu' ballate di assassini o blues sensuali, niente piu' ossessioni allucinogene, neanche piu' un dio consolatore: oggi c'e' solo un immenso senso di nulla, c'e' un dolore che non da tregua e non permette di sentire altro.
La morte non e' piu' una favola oscura da raccontare con furbesca malizia: questa volta e' irrimediabilmente reale e si abbatte come una scure sulle corde vocali del nostro e sul suo modo quasi apatico (sic) di sfiorare gli strumenti.
E lui, Mr. Cave, puo' dire cio' che vuole, che questo album non ha a che vedere con suo figlio e che le canzoni sono state scritte precedentemente, ma se il primissimo verso di apertura dell'album recita "You fell from the sky", tu puoi pure far finta di credere che stia davvero parlando del disastro aereo di Shoreham ma la prima immagine che ti si para davanti e' quella del gracile corpo di un quindicenne, con ancora gli allucinogeni in circolo, fracassato sulle rocce di Ovingdean.
Il resto, infondo, e' accademia.
Ed e' disgustoso anche che io sia qui a scriverne.
Non c'e' niente da scrivere, solo da ascoltare, a ripetizione, e lasciarsi avvolgere.

Nick Cave non sara' mai piu' lo stesso uomo che ho visto quella sera.
E' difficile prevedere come evolvera', ma non credo potra' mai piu' emanare quel fascino magnetico di animale selvaggio: un'aura diversa lo avvolge ormai, ascoltare per credere.


Lista delle tracce:

Jesus alone
Rings of Saturn
Girl in amber
Magneto
Anthrocene
I need you
Distant sky
Skeleton tree

martedì 20 settembre 2016

Radici

Elefanti bianchi e neri
Erano un di' scontrosi e fieri
Destinati nella lotta
Tutti quanti alla sconfitta
Triste assai la loro sorte
Guerra porto' tutti alla morte
Solo pochi bianchi e neri
Calmi, astuti, pacifici e sinceri
Fuggire decisero in un boschetto
Contrari loro a qualsiasi conflitto
Figli grigi nacquero in quella situazione
Ma ancora non vedo la nazione
Fatta di quei pacifici animali giganti
Che io e te chiamiamo "Elefanti"

giovedì 1 settembre 2016

Marlene Kuntz - Lunga attesa [2016]

Un corridoio semibuio in prospettiva; le pareti hanno la vernice scrostata, le luci hanno un che di inquietante. Al centro dell'immagine i quattro (ormai si puo' dire) Kuntz, da sinistra a destra Bergia, Lagash, Godano e Tesio, vestiti con completi a meta' strada tra l'elegante e il kitsch. Il nome della band e' il alto, il titolo dell'album in basso, entrambi scritti piccoli, di un bianco perfetto.

Play.

Non e' stata poi lunga l'attesa da "Nella tua luce", giusto un paio d'anni e mezzo, e con la pausa Pansonica a spezzare il silenzio (che poi io oggi piu' che mai penso che Pansonica non sia del tutto degli anni novanta, ma vabbeh...).

Lunga invece, davvero lunga ahime'!, e' stata la mia di attesa. Gioie e dolori della vita oltreoceano, che se e' vero che certe cose mi arrivano in anticipo e' vero anche che le spedizioni dallo Stivale sono state quasi sempre abbastanza problematiche (Monsieur Cambuzat ricordera' di certo le disavventure che abbiamo passato l'anno scorso...).
Ovviamente avevo acquistato il CD in preordine, e altrettanto ovviamente dall'uscita dell'album (fine gennaio) non ho ascoltato niente di cio' che le reti sociali cercavano di propormi: non un singolo, non un video, neanche le musiche che altri avevano scritto sul testo della traccia titolo... niente: il primo ascolto di un disco e' per me un momento sacro, specie se si tratta di un disco di Marlene.
Purtroppo di questi tempi e' impossible rimanere del tutto all'oscuro anche se lo si vorrebbe: l'occhio inevitabilmente cade sui titoli di troppi articoli e alla fine qualche informazione passa, sempre distorta, cosi' che la magia di quel primo ascolto e' rovinata.
Tant'e': vantaggi e svantaggi del mondo moderno.

Finalmente a fine luglio (sic!) ho avuto per le mani questo album e con religioso rispetto lo ho potuto lasciar suonare.

Maledette siano le reti sociali!

Ti capita di intra-leggere di un ritorno di Marlene alle glorie del passato e cosi' quelle chitarre, li' per li', non ti dicono niente, non spiazzano, non sconquassano, peggio, sono vagamente simili a cio' che ti aspettavi ma non si avverte minimamente questo fantomatico "ritorno al passato": manca completamente l'urgenza di quando loro avevano poco piu' di trent'anni e tu neanche quindici, che poi era tutto il senso di quella Marlene, sicche' riesci solo a domandarti come sia potuto accadere che Godano stia utilizzando la parola "populista" in un testo.
Possibile che proprio quando tutto il mondo si ritrova entusiasta sotto le bandiere del vecchio logo io, proprio io, la fan-acritica, debba storcere la bocca?, non e' che mi sono improvvisamente trasformata in uno di quegli sgradevoli dottor Livore mai contenti?

Poi arriva "Lunga attesa" e cambia tutto: che figli di puttana!, ti dici alla romana sorridendo d'ammirazione.
E cosi' da traccia quattro in poi, tutto l'ascolto del disco cambia completamente e Marlene torna a parlare con la sua voce ruvida e sensuale. E tu resti li', ammaliato e sospeso, mentre lei ti sferza.
E poi via da capo con il secondo, il terzo, il quarto ascolto, e ancora e ancora e ancora.
Senza mai saziarsene.

Quelli che parlano (scrivono) di un ritorno al passato non hanno capito niente.
Ecco, lo ho detto.
Perentorio.
E ora lo elaboro.

Il percorso di Marlene magari non e' lineare ma certamente e' unidirezionale: non torna mai indietro, il suo cammino la spinge comunque sempre altrove.
Marlene non sa stare ferma.
Queste chitarre, seppur graffianti, sono ben lontane da quelle degli anni novanta: grezze e urgenti quelle, raffinate ed eleganti queste, parlano di esseri umani diversi!
Anche i ritmi sono diversi: puoi ascoltarli quanto vuoi, ma nessuno di questi brani sarebbe stato bene dentro "Il vile", che che se ne scriva.
Certo, i passaggi arabo-rock di Tesio sono sempre li', Bergia picchia sempre, il braccio destro di Godano e' sempre rigido e nervoso, e infondo anche io resto sempre la bambina che giocava piu' volentieri da sola con un arco di legno costruito personalmente con un ramo e un pezzo di spago. Pero' ovviamente io oggi sono anche un'altra cosa, ho addirittura un capello bianco (di cui vado fierissima!) e qualche problema al nervo sciatico; e cosi' anche Marlene, pur rimanendo la rockettara degli anni novanta, oggi e' una Signora di cinquant'anni che preferisce il vino alla birra.

E mi sento di aggiungere inoltre che senza la "triade intermedia" ("Che cosa vedi"-"Senza peso"-"Bianco sporco") cosi' come senza il tanto villipeso "Uno" (che a me e' sempre piaciuto, ma si sa che sono di parte) non saremmo mai arrivati qui.

Come sempre mi ammaliano i ritmi, che qui piu' che mai sono potenti ed eleganti.
Bergia stuzzica l'ascolto con tocchi inattesi e passi nuovi all'orecchio di chi lo conosce bene.
La mano destra di Tesio mi sembra piu' morbida che mai e anzi, a tratti mi destabilizza con pause e riprese in controtempo di quelle che proprio non ti aspetti... la destra si', proprio lei: di tutte le mani di tutti i chitarristi viventi (tutti!) la mano destra di Tesio e' quella che vorrei avere io!, della sinistra non mi importa, toh, mi tengo anche la mia, ma la destra...
Eppure questa volta, per la prima volta da quando avevo quindici anni, sono anche i testi a stuzzicare la mia curiosita'.
Dice "ma come?, i testi di Godano non ti colpiscono da cosi' tanto tempo?".
Non ho detto questo.
Ma certo questi mi hanno strappato piu' di un sorriso.
Perche' (tanto per fare un esempio) Godano era quello che diceva che la musica dovrebbe essere eterna e non parlare di attualita', perche' l'attualita' svanisce e tra dieci o vent'anni non parla piu' a nessuno... e allora come mai oggi se ne esce con "Charlie Hebdo"? Ebbene ce lo spiega lui stesso, senza troppi giri di parole: "non e' una novita', non c'e' niente di nuovo". Percio' ecco, se in prima battuta ci rimani male all'idea che il fossanese possa aver cambiato idea basta poco per capire che lui e' sempre lui e se la ride di gusto.
Cosi' come non ha piu' remore ad autocitarsi (perche' no?, cosa mai c'e' piu' da nascondere?) nel cercare di riassumere la sua storia, ma l'acme infondo lo raggiunge nell'ammettere "che la vicenda ha una sua complessita' miserevole".

Lagash ormai e' a pieno titolo il quarto Kuntz dopo dieci anni di formazione a tre; anche in Pansonica aveva guadagnato un posto in copertina, ma qui ne apprezziamo davvero la presenza strumentale, se ne inizia a riconoscere la mano, comincia finalmente a dire la sua, e va detto che ci sta proprio bene.

L'unico rimpianto e' quello di vivere a troppi chilometri da un concerto di Marlene, cosa di cui oggi piu' che mai sento la mancanza, ma prima o poi capitera' che io sia nello Stivale durante un tour, perche' per lo Stivale ogni tanto ci si passa, e sara' bellissimo esserci di nuovo, me lo prometto.

Cosi', giusto per coccolare il mio ego in mancanza d'altro, rileggo quello che scrivevo a proposito dell'album precedente e... toh...

Cosa manca per farne un grande album? Sicuramente qualcosa, ma se vogliamo dar credito alla mia teoria, questo qualcosa sara' nel prossimo...

Ma guarda un po'.


Lista delle tracce:

Narrazione
La noia
Niente di nuovo
Lunga attesa
Un po' di requie
Il sole e' la liberta'
Leda
La citta' dormitorio
Sulla strada dei ricordi
Un attimo divino
Fecondita'
Formidabile

martedì 30 agosto 2016

Goodbye Gene


(...si', lo so che questo non era un musicista: con Bud Spencer e la Marchesini mi sono trattenuta a fatica, ma quando e' troppo e' troppo)

sabato 13 agosto 2016

Impressioni a caldo

Atlanta, Hotlanta come la chiamano gli "outsider" (accipicchia se fa caldo... il mio animo terrone esulta!), ti accoglie in modo molto diverso da Hamilton.
Non e' la mia prima volta qui, anzi ieri ho subito ricostruito alcuni momenti di tre anni e mezzo fa, ritrovando anche il posto dove ho lasciato un pezzo della mia caviglia e chissa', forse del mio destino, ma questa e' un'altra storia, e si dovra' raccontare un'altra volta.

Ancora due anni fa il nordamerica era per me un luogo del tutto estraneo: una visita (o piu') di una o due settimane, per vacanza o conferenze, non puo' insegnare niente.
Dopo due anni di vita nell'Ontario del Sud il mio sguardo si accorge di molte piu' cose, ovviamente.

Hamilton e' una citta' disperata.
Atlanta e' una nobildonna del Sud.


La terronia nordamericana ha qualcosa in comune con quella italiana: anche questi sono signori eleganti, decaduti dopo essere stati sconfitti in una guerra "interna" di duecento anni fa, che mantengono comunque la squisitezza del nobile.
La' dove gli Hamiltoniani sono carini e cordiali per dovere climatico, gli Atalantini lo sono per maniera ed istruzione.
La' dove il nordico si chiude in casa per ripararsi dal freddo, questi si ritrovano tutti insieme nel giardino condominiale per un barbecue nel finesettimana.

In metro (anzi, marta) sono spesso l'unica bianca e qualcuno mi ha detto che c'e' tensione razziale, cosa cui immagino dovro' stare attenta, soprattutto se vince zio Donald, ma fin ora non sono stata in grado di percepire alcun che' in questo senso.

A quanto capisco Atlanta si sta anche lentamente trasformando nel "posto dove essere", c'e' forza giovane che arriva ogni giorno con idee e voglia, tutto odora di "inizio": anche la recente campagna acquisti di GeorgiaTech sembra fatta perche' possa nascere qualcosa di nuovo.

E' emozionante pensare che saro' parte di tutto questo.

domenica 24 luglio 2016

Wonhyo



"Tutto cio' che crediamo di vedere e' colorato dalle percezioni che abbiamo appreso dagli altri. Quanto impariamo a guardare davvero il mondo intorno a noi, senza questi percezioni apprese, riconosciamo che tutto e' Uno, e non ci sono distinzioni o differenze tra le persone o gli oggetti. Tutto procede dall'Unica Mente, e tutto cio' che un individuo prova non e' che una parte di qull'Unica Mente.

Le persone si sentono cosi' tanto a loro agio con le delusioni dei loro sogni che non hanno voglia di lasciarle andare, e vi si aggrappano con forza quando sono minacciate.
Ma l'universo non ha "buio" ne' "luce", ne' "vita" e ne' "morte": ha solo se' stesso, cosi' com'e', senza etichette.

Le persone tendono ad etichettare le cose, e non appena lo fanno sostengono di aver capito cio' che quelle cose sono e cosa significano, ma le cose che si etichettano non sono mai cio' che si pensa che siano.
Uno puo' pensare di aver ragione nelle proprie etichette, poi magari trova anche altre persone che sono d'accordo con tali etichette e la conseguente visione del mondo: cio' pero' non significa che quelle etichette sono corrette.

Quando una persona si e' risvegliata dalla delusione e dall'auto-soddisfazione, allora puo' riconoscere l'Unica Mente e il fatto che tutte le cose sono una.
Gli esseri umani sono qui, in questo mondo, per raggiungere questo risultato, perche' e' solo qui che si devono affrontare cosi' tante tentazioni da rischiare di essere condotti sulla strada sbagliata, e cosi' la lucentezza dell'illuminazione brilla ancor piu' chiaramente quando e' riconosciuta."

martedì 12 luglio 2016

Swans @ Danforth Music Hall - Toronto

11 luglio 2016

Vivere in nordamerica, bisogna ammetterlo, comporta alcuni indiscutibili vantaggi; vivere a poche miglia dalla citta' (anzi, dalla Citta'), coccola il lato musicofilo dell'individuo che voglia approfittarne.

Toronto d'estate e' la felicita', un'esplosione di luce, di colore, di calore e di sorrisi cosi' intensa da farti quasi dimenticare che l'inverno sia mai esistito; non escludo che la prossimita' dal congedo renda tutto ancora piu' bello ai miei occhi di quanto non sia, ma che importa?, godiamolo finche' ce n'e'.

Al Danforth ci sono gia' stata, a maggio e a settembre dell'anno scorso, in giornate troppo grigie e fredde (si', a maggio e a settembre!) perche' venisse voglia di stare all'aria aperta: oggi e' diverso, oggi e' luglio, fanno trenta gradi e c'e' un sole bellissimo che quasi ti implora di passeggiare per la colorata Greek-Town, dove anche i nomi delle strade vengono riportati sia in caratteri latini che in quelli ellenici. Ah quanto e' bella la Citta'...

Sul biglietto c'e' scritto 7pm e qui sono piuttosto puntuali, ma e' pur sempre un concerto rock: mi metto in coda alle sette e cinque (dio, mi sto forse canadesizzando?). Ho accesso al "main floor", volevo, dovevo, stare in bocca a Mr. Gira: per troppi anni ho sperato di poterlo vedere dal vivo.
Entro dunque, e la sala e' semideserta, tanto che riesco a guadagnare senza il minimo sforzo un posto in prima fila, con i gomiti letteralmente poggiati sul palco, decentrata di forse venti centimetri.

Al centro del palco c'e' uno sgabello con accanto due archetti da violoncello; appena alle spalle dello sgabello un muro di sei (!) amplificatori, con una piccola apertura delle dimensioni esatte della gran cassa della batteria: il resto dello strumento e' nascosto dagli impianti, giusto tom e piatti sono chiaramente distinguibili. Accanto alla fila di amplificatori, sulla sinistra rispetto alla mia visuale, una tastiera a due piani e un'altro ampli alle sue spalle; ancora piu' a sinistra altri due ampli con davanti una chitarra (che non sara' sfiorata per tutto lo spettacolo) e una postazione con sgabello davanti a uno strumento che non riesco a catalogare.
Di sottofondo una musica da rito celtico ci introduce al giusto stato d'animo.

Dopo un po' entra una donna dai lineamenti orientali, credo coreana; indossa una camicia di seta gialla e si muove con decisione. Stende un foulard sullo sgabello, vi poggia accanto, sul pavimento, un tablet e poi va ad aprire una custodia da cui estrae un violoncello. Non un sorriso, non un cenno, niente. Si sistema, imbraccia un archetto, fa partire un cronometro sul tablet e sfiora le corde del violoncello. Ci ripensa "scusate, faro' dei rumori" dice senza la minima inflessione mentre sistema i circuiti dell'amplificazione dello strumento; siamo tutti in solenne attesa.
Chiude gli occhi e attacca.
Magia.
Difficile da descrivere la sua musica/non-musica, il suo percuotere e sfiorare, il noise estremo, la dissonanza totale, la grazia la rabbia: la guardo rapita. Le sue dita si muovono sullo strumento con chirurgica precisione, la bocca e' imbronciata, quasi infastidita, tanto che per certi versi mi fa pensare a un certo pianista geniale, musicalmente emozionale eppure immensamente glaciale col suo pubblico adorante.
Dopo circa dieci-quindici minuti si ferma e si prende un applauso scrosciante dal pubblico Cittadino che era rimasto in totale paralisi fino a quel momento; la donna si alza dallo sgabello, fa due o tre passi e va a sovrastare un ragazzo, circa cinque-sei persone da dove sono io: "Crederesti che non sento se bisbigli eh?" lo fulmina con tono severo e torna a sedere, se possibile con l'aria ancor piu' imbronciata. Chissa' cosa ha sentito con quelle orecchie ultrasoniche.
Ricomincia.
Lo strumento, sotto le sue dita, grida e si dimena: noi tutti siamo di nuovo a bocca aperta e sguardo estatico. Certe cose le ho sentite fare da chitarristi con chili di overdrive, come puo' riuscirci lei?, dalla mia posizione privilegiata vedo addirittura spruzzi di polvere di corda corrosa dalla foga.
Va avanti per altri dieci-quindici minuti e si ferma di nuovo, e nonappena stacca l'archetto dalle corde parte il nostro applauso entusiasta. Fa per alzarsi, si china giusto a guardare il timer sul tablet e decide di risedersi: evidentemente ha ancora tempo a disposizione e, per nostra fortuna, lo usa tutto.
Mi appunto mentalmente di comprare il suo album all'uscita ma purtroppo non lo trovero': dovro' rimandare a dopo il trasloco perche' adesso ho paura che non faccia in tempo... peccato.
Finito il terzo brano si alza definitivamente, china il capo in segno di ringraziamento e senza dire una parola mette via violoncello, foulard, tablet ed esce.
Senza un sorriso.

Buio.

Ora la musica di sottofondo e' un country sbilenco, l'altra anima di Gira che emerge.
Mi guardo intorno e mi accorgo che tutti indossano tappi per le orecchie: cuccioli!, penso.
Nel buio entra Westberg ad accordare la sua chitarra; lo vedo, lo riconosco e mi impressiona la sua magrezza scheletrica. Uno alla volta entrano anche gli altri, Gira incluso, a sistemare i rispettivi strumenti: e' la prima volta che mi capita una cosa del genere, i roadie esistono apposta, no?, la sensazione che mi rimane addosso e' quella che nessuno puo' toccare uno strumento degli Swans.

Ri-buio.

Alle nove in punto entrano i sei: Westberger laggiu' alla mia destra, Pravdica accanto, Puleo dietro le pelli, un inatteso ricciolone alle tastiere (che fine ha fatto Thor Harris?), Hahn alla mia sinistra davanti allo strumento non identificato mastica un chewing-gum, Gira al centro, spalle al pubblico.
Hahn indossa dei plettri da dita e comincia ad arpeggiare dolcemente e freneticamente, il ricciolone lo segue, poi, in crescendo gli altri; e' un brano strumentale che contiene buona parte di "No words/no thoughts" e il resto e' lasciato all'improvvisazione. Col crescendo comincio a sentire le vibrazioni acustiche sul corpo.

Ora.
Una (io) pensa di essere preparato.
Sedici anni di concerti noise-rock non sono certo bruscolini.
Ho assistito ad "Hallucination City" di Glenn Branca all'Auditorium e non l'ho mai dimenticato (oh come s'era pischelli...)
Ho perso il conto delle volte in cui la parte delle api mi e' stata sonicamente sparata addosso mentre ero in primissima fila, letteralmente davanti all'ampli di Tesio.
Il mio lettore mp3 a volte mi chiede se sono sicura di quello che sto facendo con la levetta del volume e prova a convincermi di salvare i timpani finche' sono giovane.
Ma niente, neanche "Hallucination City" poteva prepararmi a questa sera.
I nove amplificatori sembrano tutti puntare contro di me, le spie sul fronte del palco sono talmente vicine che sento anche loro, i miei gomiti vibrano, la sala vibra... guardo i musicisti e mi accorgo che tutti loro indossano tappi per le orecchie... beh quasi tutti: Gira no, le sue deve averle bruciate ai tempi di "Children of God".
Cedo.
Umilmente cedo e appoggio delicatamente gli indici sulle orecchie: per tutta la durata del concerto le mie dita aumenteranno o ridurranno la pressione a seconda del volume, perche' amo troppo la musica per rischiare la sordita'. Come questo pensiero mi attraversa la mente capisco che e' avvenuta in me una trasformazione importante negli ultimi due anni.
Sorrido e torno alla musica.

Sul cantato Gira allarga le braccia come un moderno Mose' davanti al Mar Rosso: invece di separare le acque pero', il nostro Profeta alza e abbassa il volume dei suoi compagni che lo guardano costantemente. Qualcosa nella piega delle labbra, nel modo in cui le arriccia, mi fa pensare a un collega francese che non c'entra assolutamente niente... va a capire perche'.

Alla fine Gira saluta: "grazie perche' accogliete e ricambiate il nostro amore", dice e
attaccano "Screen Shot", col suo ritmo ipnotico e allucinato che sconquassa le membra: nessun dolore, nessun adesso, nessun tempo, nessun qui, guidati dal nostro guru viviamo questo momento come se non ci fosse ne' un prima ne' un dopo.

"Grazie ancora", dice Gira alla fine del brano "se ci amate fateci un bell'applauso".
Urla e applausi.
"Se vi e' piaciuta la prestazione di Okkyung Lee al violoncello fatele sentire un bell'applauso"
Applauso scrosciante, urla di approvazione.
Gira sorride.

Seguono le preghiere: "The cloud of forgetting" prima e "The cloud of unknowing" poi.
Se della prima mi colpisce l'aspetto quasi etereo, la seconda capisco che e' una sinfonia su un atto sessuale: i preliminari, il su e giu', su e giu', che non vuole farti arrivare subito all'orgasmo, ti porta vicino e si ritrae, prolunga ancora e ancora e ancora finche' non arriva l'agognata esplosione che ti pervade, una volta, due, tre, e poi musicisti e pubblico si accasciano esausti, l'uno contro l'altro, ad accarezzarsi con un sorriso stanco.
Gira ringrazia e chiede scusa per la voce (?) "sapete, ieri sera ho bevuto un po' troppo" prova a giustificarsi.
Seguono senza soluzione di continuita' "Some things we do" e "The world looks black".
Guardo ammirata.
Westberger, secco secco, sembra possa rimanerci da un momento all'altro, i giovani Pravdica e Puleo, quando non guardano Gira, si scambiano sguardi d'intesa, il ricciolone gode per l'appunto come un riccio, Hahn sembra spiritato: ogni tanto si massaggia l'avambraccio, segno che lo strumento non identificato lo sta impegnando parecchio. Lo guardo con occhi meravigliati e lui se ne accorge, mi sorride, mi fa l'occhiolino e sillaba un ringraziamento in risposta al mio "uau!".
Chiudono con una "The glowing man" pazzesca.
Non resisto piu'.
In barba al volume stacco completamente le mani dalle orecchie, caccio un foglio e una penna, scrivo "che strumento e' quello?" e lascio scivolare il foglio ai piedi di Hahn che lo legge, mi sorride e mi lascia capire che rispondera'.
L'uomo splendente e' un uomo in cammino: l'esplosione finale ci lascia inebetiti e felici.
Sullo scroscio del pubblico i musicisti raggiungono il fronte del palco e si inchinano tre volte, a toccare il pavimento con le punte delle dita: il bassista addirittura si inginocchia (dolori alla schiena?, eppure e' visibilmente il piu' giovane).
Nell'uscire Hahn si gira verso di me, indica lo strumento, segna un due con la mano come a dire "dammi due minuti" (pausa pipi'?), poi ci ripensa e lo cambia in un tre: alzo i pollici per ringraziarlo.

I ragazzi accanto a me hanno assistito alla scena, letto il mio biglietto e adesso sono curiosi quanto me. Hahn riesce, prende lo strumento dal supporto e me lo avvicina. "E' una specie di chitarra hawaiana" dice. "Vedi?, ti metti qui con le dita e fai casino... beh, in teoria serve per suonare una musica tipo 'Sponge Bob', pero' io non lo so suonare: ammiro molto quelli che lo sanno suonare ma io non ci sono capace!, io sono sicuramente il piu' rumoroso: il piu' rumoroso suonatore ignorante di questo strumento!". "Beh, era davvero bellissimo, complimenti!" dico di rimando, pensandolo sinceramente. Lo ringrazio, gli stringo la mano ed esco.

Alla fermata del pullman verso Hamilton un ragazzo mi si avvicina. "Tutte le persone fighe al concerto degli Swans tornano a Hamilton" dice. Ci metto qualche istante, poi riconosco uno di quelli che si erano fermati a sentire la spiegazione di Hahn.
Chiacchieriamo per tutto il viaggio di ritorno: a quanto pare anche a Hamilton esistono persone dotate di gusto musicale... peccato averlo scoperto solo oggi.

domenica 10 luglio 2016

Swans - The glowing man [2016]

Sfondo marrone chiaro che mi ricorda il sughero e anzi, tutto il contenitore e' di un cartone poroso al tatto; al centro uno strano simbolo runico rosso, bordato in oro, lascia una leggera ombra dando l'effetto di essere lievemente sollevato rispetto al resto: e' un braccio, ma a meta' del bicipite si diramano due appenici non meglio identificabili. Il retro e' assolutamente identico, salvo che al posto del "braccio" c'e' una gamba.

Play.

Ma quanto e' bello l'ultimo disco degli Swans?
Ti seduce, ti prende e ti rivolta, ti lascia paralizzato.

L'attacco e' di quelli che preannunciano grandi cose, con un'inizio di suoni lunghi e sognanti, seguito dall'ingresso una chitarra acustica ingannevolmente morbida, che ci introduce in crescendo, lentamente ma inesorabilmente, a quel senso allucinazione da droga pesante (non lo so per davvero l'effetto che fa, ma l'immagino cosi') che non ci abbandonera' per tutta la durata del doppio album.
E di crescendo in crescendo, brano dopo brano, si rimane avvinghiati a questi centodiciotto minuti e ventisette secondi di Messa Nera: no, non sono canzoni, sono incantesimi oscuri e dannati.

Ogni nota, ogni fraseggio, ogni emozione: tutto e' prolungato fino allo spasmo perche' noi si possa assaporarne fino in fondo la perversione.
Il tempo si dilata, lo stordimento ci assale lasciandoci in uno stato catatonico.

L'alienazione metropolitana di Mr. Gira ci avvolge senza scampo, ed e' un attimo evocare alla mente le immagini della oscura e piovosa San Francisco di Ridley Scott (assai diversa da quella che Philip K. Dick mi aveva fatto immaginare) che piu' che San Francisco sembra New York; e del resto Mr. Gira tutto sembra, meno che californiano.
Persino in questi giorni di luce immensa, sole, afa estiva e sudore che ti cola dalla fronte (bello il clima continentale...) la musica degli Swans raggela il sangue nelle vene e fa si' che non ci si dimentichi della pesantezza dell'inverno.

Viene qui riesumato il testo di "The world looks red" ma Gira ne stravolge completamente la musica, apponendovi quella firma che trentatre' anni fa aveva lasciato in favore dei giovani sonici: in questa nuova veste estatica assume addirittura un tono quasi malinconico.

L'uomo che splende e' un assassino, uno stupratore, uno stuprato, uno sconfitto il cui corpo e' troppo pesante per reggersi in piedi.
Si ritaglia quindi un ruolo molto speciale "When will I return?", cantata da Mrs. Gira in persona.
Dice lui:

I wrote the song ‘When Will I Return?' specifically for Jennifer Gira to sing. It’s a tribute to her strength, courage, and resilience in the face of a deeply scarring experience she once endured, and that she continues to overcome daily.

A quanto pare la donna, dopo aver subito un'aggressione sessuale, combatte ancora oggi con il ricordo, la paura e i fantasmi ma e' viva e, per l'appunto, combatte.
Ed e' a questa forza, credo, che Mr. Gira rende onore, la forza che manca all'uomo spendente, uomo che trova la pace solo alla fine, solo lasciando che tutto si dissolva nella polvere e nell'abbandono: non c'e' battaglia se non con se' stessi e Gira ne esce sconfitto, meno splendente e piu' uomo che mai.


Lista delle tracce:

[Disk 1]
Cloud of forgetting
Cloud of fnknowing
The world looks red / The world looks black
People like Us

[Disk 2]
Frankie M
When will I return?
The glowing man
Finally, Peace

sabato 9 luglio 2016

P.J. Harvey - The Hope Six Demolition Project [2016]

Sfondo bianco e una specie di stemma araldico disegnato come a matita: l'immancabile scudo diviso in quattro parti e' al centro dell'immagine, e su di esso sono riportate tre chiavi nel quadrante in alto a sinistra e tre macchie che fanno pensare a cadaveri di conigli nel quadrante in basso a destra, mentre gli altri due quadranti sono immacolati. Ai lati dello scudo due animali, un caprone a sinistra e un cane a due teste a destra: il primo poggia un piede su tre frecce ed e' fasciato da quello che ricorda un cinturone da mitragliatrice, il secondo poggia i piedi su un kalashnikov. Sotto lo scudo un nastro su cui e' scritto in stampatello P J HARVEY, mentre in alto, in rosso scarlatto, unico colore presente nell'immagine, sempre in stampatello, compare il titolo dell'album: le corna del caprone sono come incastrate tra le lettere "SIX".

Play.


Polly Jean e' una di quegli artisti che si sono guadagnati da sempre e per sempre il mio amore incondizionato (del resto il nome della mia Polly viene da li'), ergo in tutto quel che scrivo e scrivero' a riguardo temo sia necessario tener conto del mio essere impari.

La passione degli anni giovanili, l'oscurita', la malinconia dell'eta' adulta... tutto cio' e' stato lasciato alle spalle e una nuova Polly Jean, matura, consapevole e battagliera, ci racconta storie di degrado, violenza e disperazione con voce da bambina, la voce di chi le osserva da fuori, ne rimane colpito, ma infondo sa di non farne parte.
Ci sono voluti cinque anni di assoluto silenzio, cinque anni in cui la Signora del Dorset ha viaggiato, ha riempito gli occhi, le orecchie e il cuore di immagini che difficilmente l'abbandoneranno.
E ora e' pronta per raccontare, con paragoni forse neanche cosi' azzardati.

"The Hope Six Demolition Project" racconta di tre luoghi: il Kosovo, l'Afghanistan e Washington D.C. (Mall e Anacostia). Ci vogliono occhi buoni per pensare di accostarli, occhi buoni e quel tanto di ironica tracotanza inglese (azzardo: europea!) che evidentemente non manca alla Signora.

Non ho mai visto ne' il Kosovo ne' l'Afghanistan ma ho visto la Palestina, che non non credo sia molto piu' allegra, e certe immagini mi si sono inevitabilmente scolpite dentro.
Non ho mai passeggiato per Anacostia ma il sobborgo malandato nordamericano e' una realta' che ormai posso dire di conoscere, ci vivo dentro, ne conosco i ritmi, il respiro, l'odore persistente che niente e nessuno sara' mai davvero in grado di descrivere.
"Ci metteranno un Wallmart qui" dice la Harvey nella traccia-titolo, restituendomi fin da subito le immagini in tutti i loro dettagli.

Il mio primo viaggio a Washington D.C. aveva prodotto questo, il suo ha prodotto questo: fa un certo effetto rendersi conto di essere state colpite in modo simile, con la differenza abissale che all'artista bastano poche parole, un cambio armonico e il ritmo di una marcia. Ma siamo li'.
O forse e' quel che ci leggo io, chissa'.
Eggia', e' forse proprio il mio strano rapporto col sobborgo nordamericano che mi fa apprezzare questo lavoro in maniera particolare, perche' ho la sensazione di capirlo meglio di quanto avrei fatto due anni fa, anzi, meglio di quanto non faccia la stessa Polly Jane.

Non bastano pochi passi per capire, non bastano due anni, chissa' se basta una vita.


Lista delle tracce:

The community of hope
The ministry of Defence
A line in the sand
Chain of keys
River Anacostia
Near the memorials to Vietnam and Lincoln
The orange monkey
Medicinals
The ministry of Social Affairs
The wheel
Dollar, dollar

lunedì 20 giugno 2016

2016: An American Odissey

Ormai quasi due anni fa c'e' stato il primo salto, i primi passi.

Come ci sono arrivata, ormai, non ha piu' nessuna importanza: sono qui, a ovest dell'Atlantico, e a questo punto mi domando se tornero' mai dall'altra parte. E infondo perche' dovrei?, qui sono trattata in un modo che di la' non sarebbe possibile e non credo di essere disposta a rinunciarvi.
L'America e' per sua stessa costituzione il "fresh start"! Dovevo cominciare dal Canada, e' ovvio, perche' due anni fa non ce l'avrei mai fatta ad andare a vivere negli Stati... ora e' diverso, tant'e' che la mia prossima meta sono gli Stati del sud (sic!), tanto sud che, a quanto capisco, tranne che in citta' (minuscola questa, almeno per ora) sono tutti repubblicani.
Ma sto divagando, tanto per cambiare.

Il viaggio, dicevo, e' cominciato quasi due anni fa, e infondo al cuore, all'epoca, pensavo che sarei tornata: me lo dicevo ancora un mese fa, anche se in realta' oggi capisco che non lo pensavo piu'.
Quasi due anni sono lunghi, piu' lunghi di quel che si puo' credere lasciandosi ingannare da un sguardo superficiale e poche parole.
Quasi due anni nel profondo nordamerica sono difficili da spiegare, il profondo nordamerica assomiglia a quei film che dall'Europa, con la puzza sotto il naso, giudichiamo belli, inquietanti e comunque di sicuro esagerati.
Bisogna viverlo da dentro per capirlo: fare amicizia con i venditori al farmers market, quelli che ci sono tre giorni a settimana perche' gli altri, per l'appunto, si lavora in fattoria. Bisogna scambiare due parole con la signora del caffenordamericano (no, non e' caffe', e' caffenordamericano, un'altra bevanda!) che sorride sempre. Bisogna passeggiare in certe zone che prende male solo a pensarci, averne sentito l'odore. Bisogna aver visto i bambini che giocano alla raccolta differenziata nel cortile della scuola. Bisogna esser stati a casa di una famiglia ultra'.cattolica a suonare il rock-&-roll. Bisogna aver festeggiato il ringraziamento.

La GTA e' piena di "italiani".
Non riesco a non mettere le virgolette: qui "italiano" e' usato in senso razziale.
Razza italica, come razza cinese o razza africana: non spiccicano una parola di italiano, figurarsi aver mai messo piede in Italia.
In questi due anni, vivendo gomito a gomito con queste persone, ho capito che quella che per me e' la definizione "italiano" va addirittura al di la' del passaporto; io stessa, in un certo senso, sono meno italiana oggi di due anni fa: lo ho capito quando una mia amica mi ha raccontato della presenza dei militari nella metro B, fatto di cui ero a conoscenza tramite i giornali, ma che non avevo capito e che infondo continuo a non capire. Ho vissuto i problemi del Canada, non quelli dell'Italia: oggi sono un po' meno italiana e un po' piu' canadese, domani saro' anche un po' statunitense, pensa un po'.

Un amico mi ha regalato "2001: A Space Odissey" e lo sto leggendo.
Ieri sera un passaggio mi ha colpita.

Base lunare Clavius, sala delle conferenze; Floyd e' appena arrivato e si guarda intorno.

"Floyd was particularly struck by a collection of signs, obviously assembled with loving care, which carried such messages as PLEASE KEEP OFF THE GRASS... NO PARKING ON EVEN DAYS... DEFENSE DE FUMER... TO THE BEACH... CATTLE CROSSING... SOFT SHOULDERS and DO NOT FEED THE ANIMALS. If these were genuine - as they certainly appeared to be - their transportation from Earth had cost a small fortune. There was a touching defiance about them; on this hostile world, men could still joke about the things that they had been forced to leave behind - and which their children would never miss."

Il corsivo l'ho aggiunto io.

Gli "italiani" di qui si riuniscono tra loro per guardare le partite della nazionale, ma si domandano come facciamo noialtri (voialtri) a vivere senza l'hockey o i french toast.
La puntualita' lucida con cui Clarke, con una frase, descrive i miei pensieri sconnessi mi fa sentire meno sola.

...e di dove saranno i miei figli se mai ne avro'?

martedì 3 maggio 2016

Lezioni inattese

"...se una squadra di pippe può vincere il campionato più competitivo del mondo, allora, ciascuno di noi, in egual misura, può scalare i giorni della propria vita e raggiungere gli obbiettivi che si è prefissato."

(Blackswan)

sabato 23 aprile 2016

domenica 17 aprile 2016

Explosions in the sky - The wilderness [2016]

Un'immagine seghettata dall'aria futurista, forse un mare in tempesta che si infrange su una scogliera. Forse. E un cielo biancastro a dar corpo. Forse. Il titolo dell'album e il nome del gruppo si stagliano piccoli ma ben distinguibili sul "cielo", nero il primo ("the WILDERNESS", a voler essere precisi), rosso il secondo.

Play.

Sono passati cinque anni esatti da "Take care, take care, take care", cinque lunghi, lunghissimi anni. Occhei, ci sono state delle colonne sonore nel frattempo, ma e' un diverso sentire: scrivevo la tesi di dottorato con "Take care, take care, take care" in sottofondo, allora il mio mondo era un minuscolo sottotetto sulla Portuense all'incrocio con il Trullo e i miei sogni andavano raramente piu' in la' del salice sotto cui avevo fatto i primi conti perturbativi.
Oggi, altalenando tra quella che spero essere l'ultima neve dell'anno (ma chi puo' dirlo?) e le prime temperature a doppia cifra decimale positiva, non ho piu' un posto o una citta' che io possa davvero chiamare "casa", tra pochi mesi (a meno di grandi sconvolgimenti a oggi imprevedibili) mi trasferiro' a sud, negli Stati, e il mondo e' piu' vasto e vario di quel che credevo cinque anni fa.
E piu' bello, e indiscutibilmente piu' bello.

Cosi', in questi giorni pre-primaverili, arriva "The wilderness" e porcamiseria: e' davvero bello.

I texani, signori del controllo della dinamica, questa volta giocano in territori dove l'esplosione arriva si', ma mai davvero, e' un filo troppo lontana perche' ti faccia sanguinare le orecchie: la vedi e ti avvolge, ma piu' che un'esplosione nel cielo e' una vallata sulle alpi, o il Lago che si apre al tuo sguardo in una giornata dalla luce perfetta.

Sono i dettagli qui a fare da padrone, a orientare l'orecchio di chi ascolta, minuscoli dettagli, inezie; bisogna prestare attenzione, non fermarsi allo sguardo superficiale, lasciarsi avvolgere dagli arpeggi, dai suoni lunghissimi e morbidi, dai giochi elettronici, si' anche da quelli.
Perche' e' solo quando si guarda con attenzione che si vedono i primi minuscoli boccioli sugli aceri che sembravano morti: ma bisogna guardare senza etichettare, guardare senza pre-giudicare, guardare fuori senza pensare di aver gia' capito tutto, guardare lasciandosi permeare dal diverso e accettando di poterne trarre insegnamento, riconoscendosi perpetui studenti della vita.

I dolci contrappunti di James, Rayani e Smith accarezzano, mentre Hrasky magistralmente sottolinea e da corpo senza sbavature; i nove brani che compongono l'album sono relativamente brevi ma lasciano il segno, con menzione d'onore per "Logic of a dream" e per il finale semi-sospeso di "Landing cliffs" che lascia spazio a infinite possibilita', cosi' come la vita e' lungi dall'avere finali definitivi prima del Grande Buio.

"The wilderness" mi accompagna per mano verso la primavera esplosiva del Sud Ontario, scioglie i ghiacci e prepara l'animo alla meraviglia che a breve arrivera'.


Lista delle tracce:

Wilderness
The ecstatics
Tangle formations
Logic of a dream
Disintegration anxiety
Losing the light
Infinite orbit
Colors in the space
Landing cliffs

domenica 3 aprile 2016

giovedì 31 marzo 2016

giovedì 24 marzo 2016

Progredendo


(La pianta e' germogliata, l'arte si va formando, verde come i boccioli che cominciano a spuntare sugli aceri nei dintorni...)

domenica 13 marzo 2016

Elisewin

Volevo dire che io la voglio, la vita, farei qualsiasi cosa per poter averla, tutta quella che c'e', tanta da impazzirne, non importa, posso anche impazzire ma la vita quella non voglio perdermela, io la voglio, davvero, dovesse anche fare un male da morire e' vivere che voglio. Ce la faro', vero?
(A.B.)
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/aforismi/vita/frase-264

lunedì 29 febbraio 2016

...o son desta?

Avete mai provato l'esperienza di un sogno lucido?, a me e' capitato questa notte.
Una volta, una vita fa, ho gia' raccontato un mio sogno su queste pagine virtuali e non ero sicura di volerlo fare di nuovo, ma per il primo sogno lucido si fa eccezione...

Sono a scuola, in quinto superiore, uno dei primi giorni dell'anno scolastico, seduta al mio posto chiacchiero con V., la mia storica compagna di banco, in attesa che cominci la lezione.

Interludio.
V. era bravissima, una delle piu' brave della classe, seria, sempre sul pezzo, animo letterario, amava il francese e il latino mentre soffriva un po' in matematica e fisica, ma mai abbastanza da prendere un'insufficienza; io invece all'epoca ero un vero disastro e facilmente chiunque avrebbe scommesso su un percorso di studi universitari malandato (se esistente) finito chissa' in quanto tempo e certamente con scarsi risultati... beh, quasi: qualcuno sospettava che sarebbe potuta bastare una scintilla per farmi correre, e alla fine del quinto, dopo il primo incontro col calcolo infinitesimale, piu' di qualcuno aveva cominciato a ricredersi sul mio conto.
Con V. ci volevamo molto bene nonostante apparissimo tanto diverse, e per un po' eravamo rimaste in contatto anche dopo la fine delle superiori, poi lei ebbe un serio problema psicologico che le impediva di trovarsi fuori di casa e alla lunga ci siamo perse; ogni tanto mi domando cosa ne sia stato di lei ma non saprei neanche piu' come contattarla.
Fine dell'interludio.

Siamo sedute dunque, deve arrivare l'insegnante di mantematica; V. riguarda la lezione del giorno prima, la definizione di limite, e li' capisco: e' un sogno!, e' sicuramente un sogno!
Non posso trattenermi: all'epoca condividevamo tutto.
"V. sto sognando, questo e' un sogno!"
Lei mi guarda scettica.
"Come fai a dirlo?"
"Perche' io non vado a scuola: ho trentadue anni e la matematica e' il mio lavoro!"
"In che senso?"
"Io sono una matematica, faccio ricerca e insegno all'universita', ho insegnato il concetto di limite una quantita' incalcolabile di volte... questo e' sicuramente un sogno!"
"Tu sei cosa???"
"Si', sono una postdoc, vivo in Canada e tra cinque mesi andro' ad Atlanta..."
"E io?"
Silenzio.
Sono in difficolta'.
Non voglio dirle del crollo psicologico, lei e' la V. diciottenne del quinto superiore, in questo momento il suo problema e' ancora in fase embrionale, una cosa da venire: vorrei poterle dire solo cose bellissime, vorrei non essere stata io quella fortunata, e di certo non voglio spaventarla o ferirla riguardo il suo futuro...
"Non lo so: dopo un po' ci siamo perse di vista..."
Vedo che vorrebbe chiedermi altro ma nel mentre arriva (in mio soccorso) la professoressa che ci sgrida perche' stiamo chiacchierando: e' una sconosciuta, il mio professore di matematica del quinto era (appunto) un professore, non una professoressa.
"Scusi professoressa" dico "stavamo discutendo della lezione scorsa"
Non voglio far sapere agli altri che e' un sogno.
"E che discutevate esattamente?" chiede con un sorrisetto beffardo pensando di mettermi in difficolta'.
"Stavamo vedendo che dalla definizione di limite, usando la proprieta' triangolare del modulo, segue che il limite della somma e' la somma dei limiti: vuole che glielo faccio vedere?"
La sconosciuta e i compagni mi guardano sbalorditi, V. mi sorride e io le faccio l'occhiolino.

E' stata un'esperienza incredibile: era tutto verissimo, ero io a parlare, a pensare, io con tutto il mio essere pensante... a questo punto bisogna imparare a controllare il sogno!

lunedì 15 febbraio 2016

The Cure - Disintegration [1989]

A quanto pare questo e' il periodo dell'anno in cui mi ritrovo ad aver voglia di guardarmi indietro; l'inverno e' a meta' del suo percorso, bisogna avvolgersi in una calda coperta e aspettare che ritorni aprile e le allergie...

Ombre confuse di oscuri fiori psichedelici: il grosso dell'immagine e' scuro, appaiono poche macchie vagamente colorate. Dai fiori emerge, in gelido riflesso verde-azzurrognolo il volto di un uomo, forse un fantasma, con gli occhi contornati di ombretto nero e le labbra ripassate da un rossetto sanguigno. Il nome del gruppo e il titolo dell'album sono in alto, lievemente squilibrati verso il lato destro, scritti uno di fianco all'altro in un rosso scarlatto che appare come usurato.

Play.

Ci vuole una certa dose di sbruffoneria per scrivere di "Disintegration" a venticinque anni dalla sua uscita, ma si sa che la sbruffoneria non mi manca.
Temo pero' di dover cominciare con una confessione, a orecchie basse e capo cosparso di cenere.

Il mio primo incontro con i Cure avvenne nell'autunno del millenovecentonovantasette, all'inizio del secondo liceo; ero stata presentata ad un tipo, un bassista in cerca di chitarrista e/o cantante per il suo gruppo, come possibile candidata al ruolo. Quella formazione ebbe vita brevissima, il tastierista e il batterista svanirono nel giro di pochi incontri e rimanemmo il bassista ed io; in seguito incontrammo (fortunatamente in breve tempo) un altro batterista e fu l'inizio di un'avventura buffa e meravigliosa che restera' per sempre nel mio cuore, ma questa e' un'altra storia, e si dovra' raccontare un'altra volta.
Ora. Ovviamente la prima cosa che si fa quando si comincia a suonare con qualcuno che non si conosce e' scambiarsi compilazioni, in modo da avere un'idea di che musica risuona nel cuore dell'altro. Io all'epoca ero in fase hard-rock: ebbene si', se avevano i capelloni cotonati, suonavano su un'ibanez spigolosa, erano ricoperti di borchie e indossavano calzoni di pelle nera attillati, verosimilmente li ascoltavo. Il mio amico no, lui era avanti, ed esordi' con una cassetta frusciante contenente Eroi nel vento, Festa mesta, Sonica, Nuotando nell'aria, Lieve, Male di miele, Voglio una pelle splendida, Curami, Spara Juri, Matrilineare, Millenni, Girasole, Lumière Blanche, New year's day, She's lost control, Disorder... insomma, aveva capito tutto. Non credo che lo sappia, temo che il mio proverbiale orgoglio mi abbia impedito di dirglielo, ma la mia vita di ascoltatrice cambio' quel giorno... vabbeh, ora che lo sai pero' non tirartela!
Poco dopo mi presto' "Pornography", voleva che io imparassi a cantare l'apripista ovvero, per chi non lo sapesse, One hundred years.
E non mi piacque.
La voce di Smith era irriproducibile, la batteria troppo rigida, la chitarra tutta sbagliata...
Avevo quindici anni.
E decisamente non capivo un cazzo.

Tempo dopo, due o tre anni per la precisione, quando ormai il mio orecchio aveva maturato una sensibilita' diversa, approdai a "Disintegration": dovevo arrivarci prima o poi, ha la giusta estetica per entrare a pieno titolo nei miei ascolti preferiti da sempre (beh, dall'autunno del millenovecentonovantasette) e per sempre.
Sicuramente e' un album dall'ascolto piu' facile di "Pornography" e certamente ero cresciuta, o forse era semplicemente il momento giusto, chissa', ma mi entro' dentro con potenza.
Eccomi dunque a scriverne nel suo venticinquesimo anniversario.

E' un album di pura emozione.
Se chiudiamo gli occhi ci ritroviamo a camminare a passo lento sotto una pioggia tiepida e dolciastra; ci lasciamo bagnare, goccia dopo goccia, finche' non sentiamo piu' niente, ne' fatica ne' dolore, finche' i capelli non si appiccicano al viso e l'acqua scioglie il gotico ombretto nero degno di Brandon Lee che abbiamo messo sugli occhi.
E nel mentre ci lasciamo abbracciare e scaldare da immagini radicate talmente nel profondo del cuore da essere inaccessibili al nostro controllo.

Suoni lunghissimi di organi avvolgenti, di chitarre dilatate all'infinito (rigorosamente senza overdrive), di bassi ripetuti fino allo spasmo, di riverberi di rullante che riecheggia a lungo dopo il colpo. Suoni infiniti e la voce magica di Robert Smith ad arrotondarli, a farci sognare.
Perche' almeno una cosa a quindici anni l'avevo capita: la voce di Robert Smith non ha eguali, cosi' come inconfondibile e' il suo modo di accarezzare morbidamente la chitarra.

E' un album di una malinconia bestiale, dove persino il supereroe non e' una figura salvifica, anzi, viene di notte, mentre sei nel letto, e con bisbigli e movimenti sinuosi scivola lentamente sulle tue lenzuola per mangiarti il cuore. E' un album in cui un abbraccio si fa sacramento.
Unica eccezione al grigiore senza fine e' Lovesong, famosa per essere stata scritta come pegno d'amore alla donna che Smith amava e ama: non era una promessa la sua, ma la semplice constatazione (fin qui verificata, almeno a quanto ne so) che l'avrebbe amata per sempre.
Il resto, tutto il resto, lascia sugli occhi un'ombra, come fa il cielo del Ontario del Sud quando non e' pulito, cosa che purtroppo accade fin troppo spesso per i miei gusti.
E Smith piange, grida, si (ci) contorce, ma senza mai essere lagnoso.

Le melodie tutto sommato sono elementari, niente di artefatto, nessuna sorpresa armonica, nessun cambio mozzafiato, nessuna costruzione cervellotica, ma davvero non ce n'e' bisogno, anzi, e' proprio la sua prevedibile e apparentemente ripetitiva semplicita' a parlarti, a rievocare ogni momento bello della tua esistenza su questo sasso sperduto nell'universo.

Lasciarsi cullare dunque, lasciare che la malinconia ci abbracci in attesa del rifiorire degli alberi, di quell'incredibile esplosione di Vita che e' la primavera Canadese; lasciarsi addormentare e sognare tutto il calore che e' stato, in questa lunga pausa ghiacciata, in attesa del calore che verra'.


Lista delle tracce

Plainsong
Pictures of you
Closedown
Lovesong
Last Dance
Lullaby
Fascination street
Prayers for rain
The same deep water as you
Disintegration
Homesick
Untitled

sabato 13 febbraio 2016

David Bowie - ★ [2016]

Fondo bianco, una stella a cinque punte nera riempie il centro della copertina; subito sotto, piu' piccoli, quattro pezzi di altrettante stelline nere, tranne una, la seconda da sinistra, che a colpo d'occhio pare un pezzo come le altre ma non e' cosi': quella e' rimasta integra.

Play.

Fiumi sono gia' stati scritti in questi giorni, parole sull'uomo, sulla sua vita, sulle sue opere: relativamente poche su quest'opera, non s'e' fatto davvero in tempo ma del resto e' difficile scrivere di quest'album facendo finta che sia uno come gli altri.
A dirla tutta c'e' un prima e un dopo dell'undici gennaio: le grandi riviste ovviamente sono arrivate prima e alcune, lette oggi, colpiscono violentemente.

This tortured immortality is no gimmick: Bowie will live on long after the man has died. For now, though, he’s making the most of his latest reawakening, adding to the myth while the myth is his to hold. (Pitchfork, 7 gennaio)

Beneath the swooning cinematic rush of Dollar Days beats a gorgeous, bittersweet piano ballad on which Bowie proclaims himself “dying to... fool them all again and again” but the phrase breaks apart until he sounds like he might be singing “I’m dying too.” [...] What can it all mean? The man himself gives no interviews and apparently remains firm in his insistence that he will not tour again. Looking for clues in his music, we are confronted with inscrutability.  (Telegraph, 8 gennaio)


Dopo l'undici gennaio tutto cambia, si scrivono solo banalita'.
E' il mio turno di incrementarne il numero: chiedo scusa, ma la verita' e' che quest'album piu' lo ascolto e piu' mi piace!

In rete se ne parlava da mesi, voci piu' o meno di corridoio si rincorrevano nell'attesa: ogni tanto una notizia, a volte un video che non osavo guardare per non rovinarmi il gusto della scoperta; poi l'uscita, ben congegnata in modo da coincidere col sessantanovesimo compleanno del Duca, e in un battito di ciglia parte l'ordine su Amazon, con tanto di acquolina in bocca e la flebile speranza di un passaggio in citta' (anzi, in Citta').
Neanche tre giorni e, ben prima che l'album venga depositato nella mia buchetta delle lettere, arriva la notizia: il Duca e' morto: un tumore se l'e' mangiato.

E allora ogni religioso attendere e' vanificato: si cerca l'ultimo video, le ultime parole, l'ultimo messaggio, si cerca di capire, forse per accettare, forse per sospendere la realta' e fingere che non sia vero, per rintanarsi in quei sogni glam-patinati di cui lui era stato l'inventore. Ma non c'e' sospensione, solo parole nude: guardiamo lassu', il Duca e' in paradiso e vola libero come una sialia. Lui ha voluto (e potuto) uscire di scena con una frase di congedo finale da tutto quanto e' li' li' per finire: nessun altro avrebbe saputo fare meglio di cosi', e se uno ci pensa capisce subito che non poteva andare diversamente.

★, dunque: che lo si ascolti ripetutamente, che se ne scriva, ma soprattutto che lo si ascolti.

Col senno di cui son piene le fosse si osserva subito il nero funereo che pervade tutto il libretto: nere le pagine, nere le parole stampate, i testi e i crediti, leggere e capire richiede sforzo, attenzione, pazienza.

Poi la musica.
Anzi, prima di tutto la Musica.
Perche' il fatto e' che ★ e' un album di una bellezza disarmante.

Chissa' cosa avrei pensato se avessi potuto ascoltarlo prima del dieci gennaio, chissa' cosa avrei capito... ma infondo e' stato lui a volere cosi': se la vita e' parte imprescindibile dell'arte, se l'arte si fonde nella vita, allora deve fare altrettanto con la morte.

★ e' un album elettro-prog di ritmi zoppi e voci tremanti in cui sassofoni cristallini e graffianti indirizzano lo sguardo verso spazi sconfinati dalle tinte fosche (Grazia, Graziella...). E' un commiato, una faccenda maledettamente privata che si fa pubblica e viceversa. E' il fondersi dell'eleganza musicale esasperata e di una nudita' verbale cruda al limite del sublime. E' una danza che ti entra dentro e ti resta avvinghiata addosso, un sussulto di vita, l'alito della morte che avanza.

Ad ogni ascolto noti un dettaglio, una sfumatura.
Dalla suite progressiva della traccia-titolo all'assolo del gran finale (e no, ha troppe variazioni armoniche perche' io possa definirlo completamente liberatorio), siamo cullati in un mondo sospeso tra jazz instabile, ballate al limite del post-punk, rock dagli echi metallici, deviazioni verso l'hip-hop (sic!) e aperture psichedeliche torcibudella. E il tutto, che ci si creda o no, e' organizzato in modo splendidamente omogeneo e compatto: del resto questo non e' certamente un album di canzoni buttate li' a caso.

Perche' insomma, diciamocelo: se sei David Bowie e sai di dover morire tra un anno o poco piu', che altro puoi fare se non lasciare il tuo ultimo messaggio in un album meraviglioso e poi chiudere gli occhi per sempre?


Lista delle tracce:


'Tis a pity she was a whore
Lazarus
Sue (or in a season of crime)
Girl loves me
Dollar days
I can't give everything away