martedì 28 febbraio 2017

Baustelle - L'amore e la violenza [2017]

Una foto leggermente sbiadita, due giovani donne abbracciate, una bionda e una bruna; la bruna e' di fianco, a torso nudo, il braccio destro, nell'atto di abbracciare la bionda, copre parte del seno; anche la bionda e' verosimilmente a torso nudo ma il gioco di luci e ombre lo lascia solo intuire. In basso a destra, piccola, la scritta in stampatello "warner music e' lieta di presentare", appena sotto, sempre in stampatello, il titolo dell'album un po' piu' grande, sotto ancora il nome della band, grande, in grassetto e caratteri minuscoli.

Play.

Era il duemilatredici quando "Fantasma" ha visto la luce.
Per qualche mese a partire dalla sua uscita lo avevo ascoltato a ripetizione, non potevo staccarmene, non avevo ne' ho mai avuto la lucidita' di scriverne ma giuro che lo ascoltavo senza posa.
Comporre un album come quello non e' cosa da poco: comporne uno dopo quello, con una cosi' pesante eredita' sulle spalle, e' una vera scommessa, e non a caso sono passati ben quattro anni, perche' ci vuole molto coraggio per mettersi in competizione con una cosa simile, e una competizione con un altro si puo' anche accettare, ma con se' stessi...

La scelta dei Baustelle per questo nuovo lavoro e', a mio parere, l'unica sensata: suonare qualcosa "oscenamente pop", per usare le parole dello stesso Bianconi, ovvero accettare che l'esperienza di "Fantasma", nella sua monumentalita', e' un unicum, un momento particolarissimo da conservare nel cuore come parentesi speciale del proprio vissuto, ma che l'essenza Baustelliana era gia' tutta incapsulata nella manciata di secondi che aprivano "Le vacanze dell'ottantatre" (ottima annata signori!) e che vale la pena di ritrovare quell'essenza per sperare ritrovare se' stessi e non perdersi alla ricerca inutile di un "Fantasma-reloaded", che tanto non potra' essere perche' se anche fosse sarebbe un surrogato insoddisfacente.

E quindi largo ai synth di plastica che sembrano usciti direttamente da una discoteca degli anni settanta/ottanta, ci si ammanti di miriadi di citazioni piu' e meno colte, piu' e meno auliche, piu' e meno popolari, si raccontino storie drammatiche con sbruffoneria e modi ridicoli, si usi la Baustellianissima sequenza di accordi si-la-mi-sol-la, tutti rigorosamente maggiori, con la voce che canta fa-diesis sul cadere del si, mi sul cadere del la e del mi e di nuovo fa-diesis sul cadere del sol e dell'ultimo la, che poi a me questi giochi armonici fanno girare la testa.

Ma attenzione perche' non si tratta un passo indietro: questo e' un album molto piu' maturo di quanto le scelte sonore possano farlo apparire a primo impatto, qui la plastica viene usata con sapienza ed eleganza ed e' chiarissimo, quand'anche non se ne fosse a conoscenza, che questo lavoro e' frutto di un percorso d'evoluzione inesorabile.

Quanto al filo conduttore mi pare che ci sia ben poco da interpretare, che il messaggio sia decisamente cristallino ed esposto a chiare lettere: una disillusione totale, accettata pero' con assoluta serenita' ("la vita e' tragica/la vita e' stupida/pero' e' bellissima/essendo inutile/pensa il contrario e poi/ti ammazzi subito/ pensare che/la vita e' una sciocchezza aiuta a vivere"... come si fa ad essere piu' espliciti di cosi'?).
Il tutto ballando come adolescenti scemi.

Si potrebbe stare ore a cercare tutti i dettagli, a parlare dei minuscoli tocchi di classe lirici o musicali disseminati qua e la', potrei mettermi anche io a partecipare alla gara giornalistica di chi ne (ri)conosce di piu': per fortuna faccio un'altro mestiere, la musica e' semplicemente il mio principale diletto e scriverne e' un gioco che mi diverte e nulla piu'... pero' ecco, questa non posso tenermela per me: trovo che traccia uno sia una perla di genialita' cinica che poteva venire in mente solo ai montepulcianesi.

Annata niente male questo duemiladiciassette fino a qui, niente da dire.


Lista delle tracce

Love
Il vangelo di Giovanni
Amanda Lear [Explicit]
Betty
Eurofestival
Basso e batteria [Explicit]
La musica sinfonica
Lepidoptera
La vita
Continental Stomp
L'era dell'acquario
Ragazzina

domenica 26 febbraio 2017

Addio Proust! - Io non ho mai perso il controllo [2017]

Sfondo color crema e un disegno a matite colorate. Una balena bluastra e' "seduta" su una sediola di legno davanti a un tavolino ricoperto di una tovaglia marrone su cui troneggia una moka; sembra voler allungare una pinna verso una tazzina ma ha lo sguardo di chi sa che non potra' mai afferrarla. Oltre il tavolo una finestra che parrebbe chiusa, ma c'e' una tenda davanti visibilmente mossa dal vento. Il nome della band e' in alto, scritto in lettere vuote; il titolo dell'album appena sotto, piu' piccolo, in semplice stampatello.

Play.

Ecco qua una nuova perlina dallo Stivale: evidentemente non riesco a staccarmi dalla musica italica, fa parte del mio essere, inutile girarci attorno.
E quello degli Addio Proust! (col punto esclamativo) e' proprio un ottimo rock italico, ben scritto e ben suonato, in cui si passa con discreta nonchalance da melodie cantautorali di facile appiglio a violenti passaggi arabo-rock, di quelli per cui tutti quanti dovremmo ringraziare il giorno in cui il Maestro-Tesio ha sfiorato la sua prima chitarra, per non parlare di episodi chiaramente figli della miglior tradizione hardcore-punk e grunge, sia nostrana che americana.
Bassi eleganti, batterie esatte, chitarre essenziali, voce sincera.

In neanche quaranta minuti, questi esordienti Fiorentini ci dicono un bel po' di cose difficili da inquadrare, e lo fanno anche con una certa ironia furbetta, indiscutibile punto di forza, che da energia, impedisce di prendersi troppo sul serio e, soprattutto, ti forza a ripetuti ascolti prima di poter individuare il bandolo della matassa.

Ci vengono proposte immagini surreali, accostamenti solo all'apparenza insensati ma che, a voler ascoltare con un minimo di attenzione, parlano di un disagio diffuso e a tutto tondo, raccontato per metafore animali perche' questo e' cio' che siamo: animali con tanti di quegli psico-strati addosso da aver dimenticato il nostro essere carne e sangue, balene che il mondo costringe ad uscire dall'acqua e a desiderare di sedersi a un tavolo per mangiare una bistecca (sic!) e bere un caffe', pesci che infondo al cuore vorrebbero semplicemente tornare a nuotare ma non lo ammetteranno mai ad alta voce.

La musica degli Addio Proust!, alla luce di queste considerazioni, si adatta perfettamente a tale altalena interiore, destreggiandosi abilmente tra generi tanto diversi che a primo ascolto possono apparire un'accozzaglia indecisa, ma a giudizio di chi scrive raramente scelta fu piu' ponderata e adattata al messaggio ultimo: che si abbandonino la ricerca del tempo perduto e le atroci costruzioni mentali che ci disumanizzano, che si torni finalmente all'essenza e lo si faccia sorridendo.

Questa deliziosa opera prima lascia l'impressione di avere a che fare con bella gente, ed e' un peccato che io sia cosi' lontana, perche' la sensazione e' che dal vivo questi ragazzi diano il loro meglio: voi (ma voi chi?), se potete, se vi capita, fate un salto e gustateveli.


Lista delle tracce

A.P.
Macello
Pesci
Bove
Sulla coda di novembre
Ascessi
Film
Virus
Mi vedi sono qua
Insetto
Neve
Alieni

Ulan Bator - Stereolith [2017]

Una cornice bianca racchiude un'immagine quasi perfettamente simmetrica rispetto all'asse verticale della copertina, di quelle che danno allo stesso tempo benessere e fastidio a chi soffre in forma leggera di disturbi ossessivo-compulsivi.
Un mostro meccanico che ricorda vagamente le eliche di un aereo si appoggia sulla superficie di un mare blu-inchiostro, due tecnici lo stanno mettendo a punto. Un piramide violacea si staglia immensa alle spalle del mostro meccanico, emergendo dal mare come un'isola psichedelica. Dietro ancora montagne di roccia rosa mostrano fianchi parzialmente innevati. Sopra le montagne, tra nuvole bianche di zucchero filato, alti palazzi grigio-bluastri.
Il nome della band e il titolo dell'album sono scritti in un triangolo bianco in basso, un taglio che dalla cornice si incunea nell'immagine.

Play.

Il potere ipnotico delle musiche di Monsieur Cambuzat ha su di me un effetto molto potente e certo non da oggi: avevo da poco compiuto quindici anni la prima volta che le mie orecchie hanno incontrato gli Ulan Bator e ne sono rimaste ammaliate, e non fatemi fare il conto di quanto tempo e' passato che mi fa impressione. A distanza di tanti anni ben poco e' cambiato.

E' passato poco piu' di un anno da Abracadabra, che a sua volta giungeva dopo solo un anno e due figure da Amaury Cambuzat Plays Ulan Bator: quando si dice essere produttivi e avere cose da dire... certa gente non sa stare ferma e, almeno a mio personalissimo giudizio, non e' in grado di scrivere Musica che non sia di altissimo livello.
Perche' porcamiseria quanto e' bello questo ultimo album degli Ulan Bator!, che magia, quale meraviglioso fluttuare ipnotizzati, incantati fin dal primo ascolto, fin dall'attacco improvviso e destabilizzante!, e' un attimo, bastano poche battute per essere catturati dalle vibrazioni elettriche, dai ritmi zoppi, dai bassi penetranti, dalle chitarre chirurgiche.

Avvolta dal fedele cuffione per l'occasione attaccato allo Stereo(lith), adagiata ad occhi chiusi in poltrona, mi lascio trasportare e mi sembra di essere una nave alla deriva su un mare elettrificato, a tratti nella bonaccia senza scampo, a tratti nel cuore della tempesta; non c'e' timone, non c'e' vela, solo la potenza e la grazia delle armonie ubriache Cambuzatiane (Cambuzatesche?, Cambuzatiche?), il vibrare delle note, dei colpi, dei respiri, e non posso far altro che abbandonarmi alla musica, e il naufragar m'e' dolce in questo mare.
E ci si sente ipnotizzati, ubriachi si', perche' e' inevitabile, ma piu' che altro nella fase successiva, quando si e' ormai semplicemente immersi in un sogno distorto e surreale: la testa ondeggia, la mente si annebbia e gli occhi si riempiono di immagini sconnesse, il tutto senza ossessione ne' nausea, anzi, quasi attraversati da un vago senso di benessere.
Per trentanove minuti e sei secondi il mondo li' fuori non esiste, niente esiste, solo questo immenso mare sonoro tutto intorno, sopra, sotto, fuori e dentro, a cullarti.

Immancabili come sempre le associazioni con la produzione di Mr. Gira, tanto che mentre ascolto e vago con la mente mi viene da pensare che non c'e' dolore, ne' adesso, ne' tempo, ne' qui; e pero', questa a sorpresa, quel "Black blue-eyed girl" della terza traccia, per come e' pronunciato e interpretato, mi rimanda inevitabilmente alla Signora del Dorset, altro caposaldo della mia cultura di musicofila, per me tanto imprescindibile che le ho intitolato la mia Polly: ditemi (ma voi chi?), la sento solo io questa citazione?

Concludendo.
...ma che conclusione?, che si continui ad ascoltare, che ci si lasci incantare, che ci si immerga completamente infondo a questo abisso per non riemergere mai piu'.


Lista delle tracce

On fire
Stereolith
Blue girl
Spinach can
Ego trip
Neuneu
No book
Icarus
Lost
Dust